
[fonte foto: focus.it]
Ormai non ci sono più limiti alle “sparate” del tycoon della Casa Bianca. Non passa giorno che i media non parlino di una nuova idea del nuovo/vecchio presidente USA . Alcune di queste (sotto forma di decisione presidenziale, quindi non approvata dal Congresso né condivisa dalla maggior parte dei deputati repubblicani) sono così assurde da non essere credibili neanche tra i suoi sostenitori. Come quella di buttare fuori (ma “volontariamente”…) i palestinesi dalla Striscia di Gaza per farne una “riviera” ricca di case e villette. Ovviamente costruite dagli americani per gli “amici” israeliani. Una “sparata” così grossa che persino alcuni politici israeliani si sono affrettati a dire che non la condividevano. Stessa cosa per la decisione di “unire” agli USA paesi come Canada e Messico (e – perché no – anche la Groenlandia!) e di monopolizzare il canale di Panama. Come se non si trattasse di Stati indipendenti, ma sudditi.
Cosa c’è dietro a questo modo di fare politica? C’è chi ha suggerito che potrebbe trattarsi di una strategia: “spararle” grosse per costringere la controparte a reagire e riuscire a strappare accordi più favorevoli. Secondo alcuni, sarebbe questo il motivo per cui, a meno di un mese dalla ri-elezione, il nuovo/vecchio presidente USA continua a sbandierare nuove improponibili idee.
La verità, però, potrebbe essere un’altra. Per capirlo, basta ascoltare chi i numeri li dà veramente. Come i numeri del bilancio federale. Ormai da decenni i conti USA sono in rosso. A denunciarlo furono già Charles de Gaulle e il suo economista Jacques Rueff affermando (negli anni Sessanta) che gli americani vivono al di sopra di quanto producono, finanziati dal resto del mondo, a spese del resto del mondo.
Nell’ultimo periodo, questa situazione è diventata critica. Già durante il primo mandato di Trump, il problema del debito pubblico americano era emerso in tutta la sua gravità. A dicembre 2019 si verificò quello che i tecnici chiamano “shutdown”: l’America si fermò a causa della mancanza di fondi federali sufficienti per la coprire le spese per la gestione corrente. Il problema (dovuto in parte agli sperperi per la costruzione del muro con il Messico) venne risolto solo dopo settimane di “trattative” e compromessi tra presidente e Congresso. Non era la prima volta che negli Stati Uniti si verificava uno shutdown: il primo risale addirittura al 1870. Dal 1976 gli shutdown si sono verificati sempre più spesso (ben 18 volte). L’ultimo alla fine del 2023: Biden cercò di giustificarsi dicendo “non si possono fare giochi con la politica quando ci sono di mezzo le nostre truppe”. Ora la situazione è peggiorata ulteriormente. Il bilancio federale degli Stati Uniti d’America si trova su un “percorso insostenibile”, come ha dichiarato a dicembre 2024 il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell. Secondo i dati diffusi pochi giorni fa dall’ISPI, il debito federale “detenuto dal pubblico” sarebbe di circa 28,3mila miliardi di dollari. Di questi, circa due terzi sono stati maturati negli ultimi 24 anni. Segno di cattiva gestione e di indebitamento folle. Il rapporto debito/PIL è del 97,8%, ma, secondo le ultime previsioni del Congressional Budget Office potrebbe arrivare al 118% nei prossimi dieci anni. Nello stesso periodo, si prevede che il deficit potrebbe passare da 1,9 a 2,7mila miliardi di dollari annui (vale a dire circa il 6% del PIL). Una situazione resa ancora più grave dal fatto che a “possedere” buona parte di questo debito sono prima di tutto Cina e Giappone, seguiti da paesi come Messico, Canada e Unione Europea. “Casualmente” proprio i paesi nei confronti dei quali, il presidente appena eletto prima ha avanzato pretese di annessione agli USA e poi ha imposto dazi (unica eccezione il Giappone).
Anche altre scelte “politiche” del tycoon della Casa Bianca potrebbero essere motivate dallo stesso obiettivo (fare soldi). Come la decisione di costringere i paesi NATO a destinare non più il 2% ma addirittura il 5% del proprio PIL al Patto Atlantico. Anche questo potrebbe essere un modo per aumentare le entrate USA: grazie alla vendita di armi e armamenti. Non bisogna dimenticare, infatti, che, tra il 2014/18 e il 2019/23, le esportazioni di armi dagli Stati Uniti, il più grande fornitore di armi al mondo, sono aumentate del 17%. Oggi, secondo i dati del SIPRI, gli USA sono il paese responsabile di quasi metà (42%) delle esportazioni di armi al livello mondiale. Un mercato di centinaia e centinaia di miliardi di dollari all’anno. Spingere alcuni paesi a comprare armi made in USA sarebbe una strategia per far entrare nelle casse degli USA un bel po’ di miliardi. Inoltre favorirebbe uno dei settori produttivi più forti (quello della produzione di armi e armamenti) e legherebbe alcuni paesi a filo doppio alla bandiera a stelle e strisce.
Per chi avesse bisogno di ulteriori prove della necessità (in realtà, una vera e propria bramosia) di Trump di fare cassa, basti vedere l’atteggiamento del tycoon nei confronti delle Nazioni Unite. Dopo aver detto basta ai finanziamenti per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nei giorni scorsi Trump avrebbe deciso di “risparmiare” qualche altro miliardo di dollari. Lo ha fatto venendo meno all’impegno precedentemente sottoscritto da Biden di contribuire con quattro miliardi al Fondo mondiale per il clima, un’iniziativa delle Nazioni Unite per aiutare oltre 100 paesi ad adattarsi ai cambiamenti climatici. Già durante il suo primo mandato, Trump aveva deciso di non rispettare le promesse fatte dal suo predecessore Barak Obama alla Conferenza delle parti di Parigi del 2015. Una scelta seguita da altri Stati le cui conseguenze sono ora sotto gli occhi di tutti: il primo mese del 2025 è stato il gennaio più caldo da quando si hanno rilevamenti attendibili. Ora il tycoon ha fatto il bis: come riportato dal sito politico.eu, il Segretario di Stato americano, Marco Rubio, avrebbe inviato al Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres una lettera nella quale si afferma che “Il governo degli Stati Uniti annulla tutti gli impegni in sospeso nei confronti del Green Climate Fund”. Il punto è che, nel 2023, l’amministrazione Biden aveva destinato tre miliardi di dollari per il Fondo per il clima. Di questi, però, solo due miliardi di dollari sono stati realmente erogati, lasciandone altri quattro miliardi di dollari in sospeso. La decisione di Trump potrebbe avere effetti devastanti fino a mettere in crisi l’intero Fondo per il clima.

[fonte foto: collettiva.it – AG. Sintesi]
E ancora. In una scheda informativa della Casa Bianca si legge: “Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite non ha raggiunto il suo scopo e continua ad essere utilizzato come organo di protezione per i paesi che commettono orribili violazioni dei diritti umani”. Per questo motivo, con un ordine esecutivo, il presidente ha cancellato con un colpo di spugna l’adesione degli Stati Uniti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (l’UNHRC). Secondo la Casa Bianca, “Paesi come l’Iran, la Cina e Cuba usano l’UNHRC per proteggersi nonostante abbiano precedenti eclatanti di violazioni e abusi dei diritti umani”.
Niente più aiuti made in USA anche per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione del Medio Oriente (UNRWA). Gli Stati Uniti d’America erano il principale donatore dell’UNRWA: i suoi versamenti ammontavano a 300/400 milioni di dollari all’anno. Nel 2024, l’ormai ex presidente Biden aveva sospeso i finanziamenti all’UNRWA (dopo le accuse del coinvolgimento negli attentati del 7 ottobre 2023). Il Congresso degli Stati Uniti aveva solo “sospeso” i contributi fino a marzo 2025. Ora, Trump ha deciso di cancellarli per sempre.
Stessa sorte potrebbe toccare all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura o UNESCO: secondo una scheda informativa della Casa Bianca, la politica di sostegno all’UNESCO “sarà sottoposta a una revisione con una tempistica accelerata a causa della sua storia di pregiudizi anti-israeliani”. “Il mondo sta entrando in un periodo molto turbolento. Quindi, come i due paesi più grandi, non abbiamo bisogno di combatterci l’un l’altro”, ha detto nei giorni scorsi Fu Cong, inviato cinese all’ONU, durante la conferenza stampa in occasione dell’inizio della presidenza cinese del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Cong non ha usato mezzi termini su chi sarebbero i responsabili di questo stato di cose: ha avvertito gli Stati Uniti di non lanciare una guerra commerciale contro Pechino, sottolineando la necessità di cooperazione in un periodo di crescente instabilità geopolitica.
Un rischio di instabilità condiviso da molti esperti del settore. La 20esima edizione del Global Risks Report 2025, realizzata con il contributo di oltre 900 esperti, parla di un panorama globale sempre più frammentato, fatto di scenari in cui crescenti scontri e sfide geopolitiche, ambientali, sociali e tecnologiche minacciano stabilità e progresso. Un cambiamento radicale e una inversione di tendenza preoccupante per molti aspetti. Nell’ultimo anno si è registrata una escalation dei conflitti, una moltitudine di eventi estremi (non solo quelli meteorologici amplificati dal cambiamento climatico) e una diffusa polarizzazione sociale e politica. Il tutto accelerato dalla “diffusione di informazioni false o fuorvianti” e da errori di calcolo o di giudizio da parte di soggetti politici e militari. Secondo gli esperti “stiamo vivendo in uno dei periodi più divisi dalla Guerra Fredda”.
La maggior parte degli studiosi (il 52%) prevede una prospettiva globale instabile nel breve termine (prossimi due anni). Per il 31% di loro si verificheranno “turbolenze” e per il 5% la prospettiva è addirittura “tempestosa”. Una prospettiva pessimistica e in peggioramento che dovrebbe durare almeno fino al 2027. Ma che nel lungo periodo potrebbe peggiorare ulteriormente: nell’arco di 10 anni, il 62% degli intervistati prevede che c’è da aspettarsi “tempi tempestosi o turbolenti”.
Per evitare conseguenze peggiori ci sarebbe bisogno di unità e condivisione. Invece, le stime parlano di divisioni sempre più profonde e di una crescente frammentazione che rischiano di rimodellare le relazioni internazionali mettendo in discussione la capacità delle strutture esistenti (come le Nazioni Unite) di far fronte alle sfide che l’umanità deve affrontare. Secondo gli esperti, invece di cercare di rafforzare i legami multilaterali per affrontare le sfide condivise, “i paesi chiave sembrano ripiegarsi su se stessi, concentrandosi sulle crescenti preoccupazioni economiche o sociali interne”.
Uno spaccato che sembra disegnato sugli USA dove il nuovo/vecchio presidente sta facendo di tutto per non andare di nuovo in default, finanziando armi, guerre e “ricostruzioni”. Poco importa se questo significherà distruggere i diritti universali di milioni di persone. L’importante è fare l’America (anzi gli USA) great again… Almeno sulla carta.