
[fonte immagine: ceipes.org]
Viviamo immersi nella tecnologia. Usiamo smartphone e computer ogni giorno, spesso senza nemmeno rendercene conto. Un gesto rapido sul touchscreen, un clic su un’icona familiare, una richiesta vocale all’assistente digitale. La tecnologia ci accompagna in ogni ambito della nostra vita: nelle comunicazioni, nel lavoro, nella scuola, nei servizi pubblici, perfino nel tempo libero. Ma questa familiarità, spesso solo apparente, rischia di essere fuorviante. Perché conoscere e usare la tecnologia non sono la stessa cosa. E l’alfabetizzazione informatica, oggi, è tutt’altro che un dato acquisito.
Dietro la superficie brillante della società digitale si nasconde un problema serio, stratificato e ancora troppo poco discusso: milioni di cittadini non hanno le competenze minime per utilizzare gli strumenti digitali in modo consapevole, sicuro ed efficace. E non si tratta solo di saper accendere un computer o mandare un’email. L’alfabetizzazione informatica richiede comprensione, autonomia, spirito critico. Significa saper valutare le fonti online, usare i software di base, difendersi dalle truffe digitali, accedere ai servizi digitali della Pubblica Amministrazione, tutelare la propria privacy, gestire identità digitali e account, e molto altro ancora. È qui che emerge una contraddizione che dovrebbe farci riflettere: viviamo nella società dell’informazione, eppure una parte significativa della popolazione è tagliata fuori dai suoi meccanismi fondamentali. Questo scollamento produce diseguaglianze nuove, spesso invisibili, ma profondamente incisive. A fianco della povertà economica e culturale si sta diffondendo una nuova forma di povertà: quella digitale.
Il divario digitale non è solo una questione tecnica, ma un vero e proprio problema sociale. Chi non ha accesso agli strumenti digitali – o non li sa utilizzare – viene escluso da opportunità lavorative, da percorsi di istruzione e formazione, da servizi essenziali. La pandemia da COVID-19 ha reso evidente questa frattura, mostrando quanto l’incapacità di gestire una videolezione, inviare un documento via PEC o prenotare un vaccino online possa trasformarsi in una barriera insormontabile. E, come sempre, le fasce più colpite sono le più fragili: anziani, persone con basso livello di istruzione, residenti in aree rurali o periferiche, cittadini stranieri, disoccupati.
Il problema non è solo generazionale. Non sono solo gli anziani a trovarsi in difficoltà: anche molti giovani – nativi digitali solo in apparenza – usano i dispositivi in modo passivo, limitandosi ai social network, alle app di messaggistica e ai contenuti d’intrattenimento, senza acquisire le competenze utili per affrontare il mondo del lavoro o i doveri della vita adulta. Saper usare TikTok o Instagram non significa saper usare un foglio di calcolo, creare un curriculum digitale o compilare una dichiarazione dei redditi online.
L’alfabetizzazione informatica dovrebbe essere uno degli obiettivi primari di una società moderna. Eppure, nel dibattito pubblico, resta spesso sullo sfondo. Si investe in infrastrutture – fibra ottica, 5G, cloud – ma molto meno nella formazione degli utenti. Si dà per scontato che “tutti sappiano già usare il computer”, oppure che “impareranno da soli”. Ma la verità è che l’autodidattica, in questo campo, non basta. Senza una guida, senza percorsi strutturati, senza un’educazione continua, il rischio è quello di produrre una massa di utenti dipendenti, passivi, vulnerabili. Eppure non è un privilegio per pochi: è un diritto. Un diritto che dovrebbe essere garantito con la stessa serietà con cui si garantisce l’accesso alla scuola o alla sanità. Non basta introdurre un’ora di informatica nelle scuole, spesso relegata in fondo all’orario e affidata a docenti non specializzati. Serve una rivoluzione culturale, che riconosca nella competenza digitale una condizione fondamentale per la cittadinanza attiva. Ciò implica che la formazione digitale debba essere permanente, inclusiva, capillare. Deve riguardare non solo i giovani, ma anche gli adulti, i lavoratori, i pensionati. Dev’essere offerta nelle scuole, nei centri di formazione, nelle biblioteche, nei centri civici, persino nei luoghi di lavoro. È necessario che le istituzioni investano nella creazione di reti territoriali di supporto digitale, dove ogni cittadino possa trovare qualcuno che lo aiuti a orientarsi nel mondo delle tecnologie. Ma la responsabilità non è solo dello Stato. È anche delle scuole, delle aziende, delle associazioni, dei media. È un compito collettivo. Insegnare a usare un’app per prenotare un appuntamento medico, spiegare cosa significa il termine “phishing”, mostrare come si compila un modulo online: anche questo è fare cultura, anche questo è costruire inclusione.
L’alfabetizzazione informatica non è un traguardo da raggiungere una volta per tutte. È un processo, un percorso da aggiornare continuamente. La tecnologia evolve, i rischi cambiano, le competenze richieste aumentano. Per questo, la formazione deve essere flessibile, aggiornata, accessibile a tutti. Certo, alfabetizzare tutti può sembrare un’impresa titanica, quasi utopica. Ma la vera utopia sarebbe pensare di poterne fare a meno. Lasciare le persone indietro, oggi, significa escluderle dalla possibilità di vivere pienamente il presente. E ancora di più, significa negare loro un futuro.
In definitiva, la domanda da porci non è se sia possibile alfabetizzare “informaticamente” ogni cittadino, ma se possiamo permetterci il lusso di non farlo.