Le cronache di questi giorni di quarantena ci restituiscono l’immagine di una Sicilia che si è ritrovata nella crisi mondiale con le “braghe calate” non essendo stata capace di costruire negli anni una visione condivisa di un proprio modello di sviluppo che, nell’Italia del dopo Covid19, costituirà la pre-condizione per la scelta di programmi e di persone che dovranno realizzare la rinascita in un arco temporale necessariamente breve.
Un modello di sviluppo definisce un destino, scelto e non subìto, fondato su un’identità storica dinamica, motore per il progresso sociale ed economico di un territorio. Proverò a declinare il degrado di queste tre dimensioni in modo sintetico ed adeguato agli spazi di un articolo.
L’identità storica della Sicilia indica chiaramente che siamo terra di confine, naturalmente deputata all’integrazione di razze, culture, religioni ben oltre la semplice accoglienza. Tuttavia tale accoglienza non ha saputo attrarre menti, eccellenze, visioni dell’innovazione e della contemporaneità. Ha solo incrementato la quota dei poveri e dei marginali lasciandoli nella precarietà, esercitando una solidarietà, talvolta “pelosa” e in alcuni casi confinante con aree più o meno grigie di criminalità comune, quando non esplicitamente mafiose.
Il passato in Sicilia è stato più contemplato che utilizzato, diventando idolatria di ciò che eravamo piuttosto che energia per ciò che potremmo essere. Paradossalmente, ospitare larga parte dei siti Unesco, ha narcotizzato la consapevolezza che al contempo le periferie dovevano trasformarsi urgentemente in centri direzionali e porti e scali aerei in snodi logistici di rilevanza internazionale.
L’identità sociale ci riporta il quadro di una popolazione debole, con enormi strati popolari un tempo sostenuti dall’agricoltura e del piccolo commercio, settori oggi messi in ginocchio. A partire dal secondo dopoguerra e con l’istituzione della Regione è stata favorita la gentrificazione cioè la concentrazione della popolazione nelle città maggiori, desertificando campagne e borghi spesso di grande pregio e con produzioni originali se non uniche. L’illusione è durata poco. L’esplosione della crescita dei processi di globalizzazione ha ulteriormente aggravato la disoccupazione cui solo gli anziani hanno fatto fronte, sostenendo figli e nipoti con i resti di un assistenzialismo pubblico che presto non reggerà più. Una borghesia recente ed essenzialmente amministrativa, fortemente dipendente dagli Enti territoriali e, dunque, dalla politica ha sperimentato a proprie spese la contrazione della spesa pubblica e si è costantemente impoverita. Soltanto la fascia reddituale più alta dei dipendenti pubblici sosterrà, ancora per poco, i consumi, anche in considerazione delle previste flessioni dei redditi di professionisti e di lavoratori autonomi.
L’identità economica, mostra le difficoltà strutturali del turismo e dell’agricoltura, settori privi di piani organici di sviluppo, preda di grandi e rapaci gruppi italiani e stranieri e soprattutto mancanti di politiche consortili comuni da porre sotto un marchio Sicilia da vendere complessivamente nel mondo a costi competitivi. La mancanze di infrastrutture di sostegno (rete autostradale completa, aeroporti low cost , porti turistici) e l’inefficienza della Pubblica Amministrazione regionale completano il quadro ed escludono la Sicilia dalla prospettiva di investitori esterni e venture capitalist che trovano altrove condizioni più attrattive e procedure più agili.
Davanti a tale scenario come si sono comportati finora i siciliani ? Chi ha potuto ha messo in salvo in figli mandandoli a studiare e a lavorare in Europa (ma anche in Australia, Canada, Nuova Zelanda) , magari riservandosi di raggiungerli al termine della propria attività lavorativa; chi non ha avuto tali mezzi, vive giorno per giorno all’insegna di una marginalità crescente e con lo spettro di una vecchiaia da indigenti privi di forme elementari di assistenza pubblica e con un sistema sanitario, colpevolmente regionalizzato e divenuto pascolo della politica, che sta mostrando in questi giorni le proprie piaghe secolari.
Tale descrizione apocalittica ma reale corrisponde ad una delle più belle regioni del mondo, dotata di uno statuto autonomistico all’avanguardia e che sulla propria carta intestata orgogliosamente si definisce “Regione Siciliana” e non semplicemente Regione Sicilia, a significare quanto di più vicino possibile ad uno stato. Una contraddizione simile susciterebbe in ogni parte del mondo civile una rivolta condivisa da ogni ceto sociale in grado di rinnovare alla radice la classe dirigente, disperdendo le ceneri di quella attuale nel volgere di pochi mesi, come accaduto in Tunisia, Egitto, Libia.
Eppure…..
Perchè i siciliani non reagiscono ? Perché, nonostante i sacrifici di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di decine di servitori dello Stato, la Primavera di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio e la martellante retorica dell’antimafia, spesso di facciata, non è cambiato nulla ?
Perchè, dopo decenni di attesa che si realizzasse, attraverso l’elezione diretta del Presidente, la pienezza dello Statuto, tale carica si è rivelata debole, talvolta macchiettistica, comunque fortemente tributaria di scelte fatte altrove e strangolata da un debito non più sanabile?
Perchè, quando si chiede ai giovani siciliani se accetterebbero un lavoro da un imprenditore in odore di mafia o la raccomandazione di un uomo politico, i più rispondono”perché no” ? Forse, perchè è questo ciò che i siciliani meritano. Nella ricerca secolare di un protettore, ieri un re, oggi un altro e poi di padrini e di nuovi padroni, i siciliani sembrano ignorare cosa sia l’indignazione, la libertà, la dignità e si sono rassegnati, nel corso delle bufere che cambiavano la Storia, a cercare sempre una buca sottoterra dove rifugiarsi e piangere impotenti contro l’avverso destino. Il destino dei vinti.
Fuori il mondo sta cambiando e travolgerà quanti non sapranno apprendere nulla dalla drammatica vicenda che stiamo vivendo. Sembra proprio che la seconda parte dell’ideogramma cinese che nel termine “crisi” include anche quello di “opportunità” per i siciliani non esista. La crisi sembra essere invece l’ennesima occasione per chiedere elemosine e sussidi più o meno a vita, e non, piuttosto, per preparare quel destino diverso che in altre zone e in altre epoche sta cambiando popoli, territori, destini individuali e collettivi.
Forse un giorno, passata la pandemia, la Sicilia diventerà la Florida del Mediterraneo, ma i siciliani faranno i camerieri. Serviranno decine di migliaia di tedeschi che sono stati nazisti e comunisti e nonostante ciò hanno saputo diventare la prima potenza europea,di europei dell’est che hanno saputo fare dell’Unione la cassa per modernizzare luoghi e costumi ed oggi si negano, ingrati, nel momento del bisogno: essi verranno non più per Goethe e per Federico II, ma perchè il soggiorno sarà economico e i proprietari degli alberghi, tedeschi o russi. Cucineranno per pensionati inglesi ed americani che saranno stati tutto il giorno in spiaggia e la sera in discoteca, perchè nessuno avrà il coraggio di mostrare loro i monumenti degradati della nostra storia. Si esibiranno per i nuovi borghesi marocchini o tunisini che un giorno seppero dire basta e, riconquistata la libertà ed entrati nella post modernità, avranno comprato poi mezza Sicilia, a prezzi stracciati. Alla richiesta di milioni di cinesi di assaggiare una caponata, risponderanno, attoniti, che non sanno cosa sia. Guideranno con orgoglio visite turistiche alla finta casa di Montalbano e non sapranno nulla del Barocco di Noto.Giunta la sera, stanchi ma soddisfatti per le mance generose, faranno anch’essi il bagno in mare e si tufferanno dalla parte emersa della Torre Pisana, diventata il più grande acquario del mondo. Finalmente scenderà la notte e, nell’avverarsi di un’antica profezia, “tutto troverà pace in un mucchietto di polvere livida”.
Questo potrebbe essere lo scenario prossimo venturo per una Sicilia che si affaccerà al mondo nuovo addormentata e intontita e scoprirà con stupore che mentre il mondo cambiava ancora una volta, reagendo alla crisi preparando il futuro e modernizzando identità, destini e classi dirigenti, nell’isola incantata risuonava l’eco un antico e consolatorio Inshallah.
Leonardo Sciascia, di cui celebreremo il prossimo gennaio il centenario della nascita, così scriveva nell’opera Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia: “Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario.“