Uno degli insegnamenti di uno dei più grandi pensatori dei nostri tempi, il sociologo Zygmunt Bauman è che ci siamo dimenticati di una parola semplice eppure stratificata e vitale. L’abbiamo svenduta all’iperconsumo di massa e alla dirompente potenza espansiva delle tecnostrutture del desiderio. La parola è “felicità”. E’ difficile spiegare cosa è.
La felicità in un primo stadio di evoluzione- ha sempre sostenuto Bauman – “è uno stato mentale, corporeo, che sentiamo in modo acuto, ma che è ineffabile”.
Ma esiste una seconda linea di evoluzione del concetto di felicità: la felicità come stato finale, come obbiettivo al quale dobbiamo tendere.
All’interno di questa seconda prospettiva, ha evidenziato Bauman, “l’evoluzione va verso un’esperienza della felicità legata direttamente al piano della vita quotidiana, che nella contemporaneità ha indebolito l’idea della felicità come obiettivo. A ciò si lega anche la parallela evoluzione del concetto di desiderio. Ora, non ci si ferma soddisfatti, e felici, quando un nostro desiderio si realizza. Piuttosto, ci si spinge subito a desiderare qualcos’altro che ci possa soddisfare in maniera migliore. Desideriamo il desiderio più che la realizzazione di esso. Quest’atteggiamento dà luogo ad una catena tendenzialmente infinita di frustrazioni e insoddisfazioni.”
Oggi la maggior parte dei giovani, che non sono extraterrestri ma i nostri figli, tende a considerare la felicità come un obiettivo, Ne sono in costante ricerca. Questo potrebbe creare insoddisfazioni in quanto continueranno sempre a cercare nuovi scopi da poter raggiungere, senza realizzarli. Rimane anche il fatto che spesso noi genitori proviamo a trasmettere loro l’ansia per quello che noi da giovani non siamo riusciti a realizzare e vorremmo ritrovarlo nel loro percorso.
Nonostante i giovani rincorrano ininterrottamente questo stato d’animo, alla domanda se siano stati più felici o infelici rispondono, il più delle volte, in modo negativo. Non si accontentano di ciò che hanno e vogliono sempre qualcosa in più, o ancora, si scoraggiano facilmente.
Siamo di fronte ad una “gioventù fragile” che ha disposizione più mezzi e strumenti per essere felice senza sfruttarli nel miglior modo possibile, a differenza del passato in cui non si avevano queste opportunità, ma si tendeva ad accontentarsi con poco.
Un articolo apparso qualche giorno fa su Avvenire, scritto da Daniele Mencarelli, evidenzia l’insoddisfazione e l’infelicità della net generation.
Il desiderio del giornalista Mencarelli di confrontarsi con i nati dopo il 2000, alfabetizzati dal primo giorno di vita al mondo digitale, è stato esaltato anche dal Premio Strega giovani, che gli ha permesso di entrare in contatto con tanti, tantissimi giovani. Durante questi dialoghi, spesso entusiasmanti, c’è un dato che colpisce più di tutti. A ogni incontro, spesso con parole tremendamente uguali, c’è sempre qualcuno di questi ragazzi che testimonia la sua profonda infelicità. Non solo a parole, non per modo di dire, lo sguardo, l’intera postura del corpo, tutto testimonia uno stato di prostrazione reale, profonda.
Mencarelli chiede conto della loro infelicità, gli chiede il perché. Anche la loro risposta sembra seguire un canovaccio prestabilito. Più o meno con queste parole, tanti giovani si professano ‘Infelici perché non sono felici’. Può sembrare un gioco di parole, un pasticcio linguistico, in realtà ci stanno comunicando uno dei mali con cui si ritrovano oggi a combattere le nuove generazioni. In molti, moltissimi, vivono la felicità come un dovere da compiere, qualcosa che ci viene richiesto dal mondo, dai nostri simili.
Dal dialogo con molti di questi ragazzi viene fuori un allarme sociale, che riguarda tutti, soprattutto chi si ritrova oggi nei panni dell’educatore, genitori in primis.
Vivo in mezzo ai giovani. Mi confronto spessissimo con i miei studenti. Incontro tanti ragazzi straordinari nelle scuole. Non sono migliori o peggiori di quelli della mia generazione. Sono diversi. E la loro fragilità è da imputare all’educazione che siamo stati capaci di dare noi adulti. In ogni contesto.
Per i nostri figli la felicità è qualcosa di statico e concreto, che si può raggiungere né più né meno di una meta turistica, o un luna park. Non solo, tanti dei ragazzi la immaginano come qualcosa di perenne: una volta raggiunta, agguantata, varrà per sempre.
Il pasticcio linguistico ‘sono infelice perché non riesco a essere felice’ assume ben altro valore, drammatico. Perché chi ragiona, chi vive in questi termini è destinato al fallimento.
Di questo se ne devono rendere conto, e prendersi le proprie responsabilità morali, tutti quelli che hanno sfruttato la ricerca di felicità facendola diventare un bene alienabile. Chi ha colmato il vuoto esistenziale dell’uomo con oggetti da comprare, costruendoci sopra bisogni inesistenti. Il meccanismo è semplice: acquista e diventerai felice, per sempre. Ed ecco, anche, la grande delusione che si ritrovano a vivere. Perché quell’oggetto, quel bisogno falso, renderà la tua vita felice per una manciata di ore, dopo tornerai ad essere quel che eri, un infelice pronto a credere a un altro oggetto da comprare.
Ecco perché la felicità è tanto avversata dai fantasmi del mondo liquido di cui ci parla Bauman.
“Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal destino, ci si sente persi se aumentano le comodità.” La felicità -osservava Bauman – è la sfida dell’umanità presente, per la sua dignità futura”.