Il Presidente del Consiglio ha reso noti i contenuti dell’ultimo Dpcm per cercare di frenare, almeno in parte, l’escalation dei contagi da COVID-19 in Italia. E subito sono scoppiate le polemiche.
La prima per l’immediatezza dell’attuazione che, secondo alcuni, non avrebbe lasciato il tempo ai comuni e alle regioni di adattarsi. Per far fronte alle lamentele è stato concesso che quanto previsto entrasse in vigore non immediatamente ma dopo qualche giorno.
Il secondo legato alle modalità: l’Italia divisa in tre zone indicate con tre colori rosso, arancio e giallo in funzione della gravità della situazione e delle misure introdotte. I media e i social network sono stati riempiti di polemiche e di commenti.
Ma pochi si sono presi la briga di leggere fino in fondo il testo. Se lo si fosse fatto forse sarebbero stati meno a polemizzare. Non è vero, ad esempio, che le misure previste dal Dpcm saranno valide fino al 3 dicembre.
Il testo appena pubblicato prevede, infatti, un monitoraggio regionale per permettere cambi di valutazione del livello del rischio ogni 14 giorni. Questo vuol dire che una regione codice arancio, come la Sicilia, potrebbe diventare codice rosso ma anche codice giallo. A deciderlo sarà il Ministro della Salute, Roberto Speranza, dopo aver consultato i Presidenti delle singole regioni.
Del resto come ha detto Conte (ma quanti erano quelli che lo hanno ascoltato fino in fondo? E quanti quelli che invece hanno preferito – come ormai consueto – limitarsi a poche voci di corridoio?) le ordinanze saranno basate su un monitoraggio periodico. Di cosa? Anche qui le polemiche da bar (chiuso per coronavirus) non sono mancate. Molti hanno concentrato l’attenzione sul numero dei contagi o sul numero dei posti letto in terapia intensiva disponibili.
La verità è che la valutazione utilizzata per definire una regione zona rossa, arancione o gialla si è basata su 21 parametri. Si va dal numero dei casi sintomatici al numero delle persone ricoverate, dal numero di casi in terapia intensiva alle persone in isolamento domiciliare, dalle checklist somministrate settimanalmente a strutture residenziali sociosanitarie al numero di strutture residenziali sociosanitarie rispondenti alla checklist settimanalmente con almeno una criticità riscontrata. E poi ancora la percentuale di tamponi positivi, il lasso di tempo tra data inizio sintomi e data diagnosi e quello tra data inizio sintomi e data di isolamento.
Ma non basta della griglia di valutazione hanno fatto parte anche il numero e la tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate al contact tracing, il numero e la tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate al prelievo e al monitoraggio di contatti stretti e delle persone in isolamento e il numero di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata ima regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale di nuovi casi di infezione confermati.
Anche il numero di casi riportati alla Protezione civile negli ultimi 14 giorni e quello dei casi riportati alla sorveglianza sentinella COVID-Net per settimana, per data diagnosi e per data inizio sintomi riportati alla sorveglianza integrata COVID-19 per giorno sono stati parametri per la decisione del colore di una regione. Ma non basta.
Si è tenuto conto anche del numero di focolai di trasmissione, dei nuovi casi di infezione confermata (non associati a catene di trasmissioni note), degli accessi al pronto soccorso con sintomi riconducibili al COVID. E poi, ovviamente del tasso di occupazione dei posti letto totali di terapia intensiva per pazienti COVID e del tasso di occupazione dei posti letto totali di Area Medica per pazienti COVID.
Tutti parametri che hanno portato il governo a indicare il colore delle varie regioni. Parametri importanti ma dei quali i media non parlano. Neanche i presidenti delle regioni, che ora non fanno altro che lamentarsi) ne hanno parlato nei mesi scorsi. Se avessero provveduto a fare concretamente qualcosa di più, forse, alcuni di loro, oggi, non sarebbero costretti a vedersi affibbiare un colore poco gradito.
Un colore che, come le polemiche di questi giorni, non tiene conto del fatto che, in realtà tra codice giallo e codice arancione, ad esempio, le differenze sono minime: in realtà l’unica vera differenza riguarda bar e ristoranti che nella prima potranno stare aperti fino alle 18.00 mentre nella seconda dovranno chiudere salvo produzione da asporto).
Altre restrizioni avrebbero dovuto lasciare perplessi. Come quella di obbligare alla didattica a distanza le scuole secondarie di primo grado (le scuole medie), ma solo per secondo e terzo anno. O quella di imporre la didattica a distanza nelle università fatta eccezione per i laboratori. O quella di lasciare aperte anche nelle regioni zona rossa le tabaccherie: come dire, facciamo di tutto per la salute dei cittadini ma non vogliamo limitare il loro diritto a fumare (ben sapendo che “il fumo nuoce gravemente alla salute” e “provoca la morte”) o evitare che possano giocare e scommettere sulle partite. Proprio quelle che rimangono uno dei suggerimenti più sorprendenti del CTS del Comitato Tecnico Scientifico, (ammesso che se ne si sia parlato e che non si tratti di una decisione presa dal vertice del governo).
In base a quale principio scientifico un lavoratore deve essere limitato negli spostamenti e nelle attività o restare chiuso in casa o limitare al massimo la propria vicinanza alle altre persone (anche sul posto lavoro) mentre un calciatore, sia sul posto di lavoro che fuori può strisciarsi liberamente con gli altri (la conseguenza è il numero di calciatori e membri delle squadre di calcio positivi al COVID-19)? Ma questo nessun giornale, nessun sindaco e nessun governatore lo ha chiesto.