Con la risoluzione dell’ONU del primo novembre 2005, il mondo intero scelse come sintesi dell’immane tragedia e celebrazione della fine di quell’incubo la data della liberazione degli internati nel lager di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945. In ogni parte del mondo la ricorrenza, dal taglio altamente educativo e posta sotto i massimi patrocini, è giustamente concentrata sugli accadimenti che videro il Terzo Reich morbosamente impegnato nella persecuzione degli ebrei volta al raggiungimento della cosiddetta “soluzione finale” statuita nella Conferenza di Wannsee il 20 gennaio del 1942, poi ricostruita nello splendido film per la televisione diretto nel 2001 da Frank Pierson, Conspiracy – Soluzione finale.
La strategia complessiva per l’estinzione di un intero popolo, presente sotto forma di attive comunità in ogni nazione europea, fu concepita e pianificata con linguaggio e metodi di estrema razionalità burocratica da Heinrich Himmler, il comandante in capo delle SS accecato da una visione misticheggiante della supremazia della razza ariana, che si era riproposta nella cultura germanica in più fasi della sua storia millenaria. Alcuni ne fanno risalire l’origine alla sconfitta patita il 7 d.C. dalle legioni del Console Publio Quintilio Varo nella Foresta di Teutoburgo ad opera delle tribù germaniche guidate da Arminio, evento che arrestò la penetrazione della cultura greco romana e mantenne indenni le radici dell’identità celtica e della categoria di “purezza della razza” che oggi appare giustamente inconcepibile, ma che ebbe largo seguito per secoli presso intere comunità nazionali.
Un intento identitario molto più praticabile in quanto nascosto dietro un profondo pregiudizio etnico-religioso e, soprattutto, consumato in tempi di gravissima crisi economica che videro addossare ad un intero popolo una condanna collettiva tale da non generare alcun senso di colpa nei principali autori – tanto da indurre Hannah Arendt a definire in relazione a ciò il terribile concetto di “banalità del male” – e un pesantissimo atteggiamento di indifferenza da parte della maggior parte dei tedeschi di allora, testimoni di quegli eventi, il cui rimorso si sta ancora stemperando nel tempo e nella consapevolezza delle nuove generazioni di quel paese, tuttavia percorso da negazionismi e rigurgiti neo nazisti.
Della straordinaria e drammatica esperienza della diaspora del popolo ebraico e delle conseguenze che anche in Sicilia la loro espulsione comportò dal 1492 in poi ho scritto altrove. Qui mi limito a rilevare come, nel complessivo ridimensionamento dell’area mediterranea a vantaggio di quella atlantica, la loro persecuzione privò l’Isola di intelligenze e di capacità imprenditoriali per oltre mezzo millennio, acuendo quel divario di classe dirigente con altre parti dell’Europa e negli USA che oggi è diventato incolmabile, si pensi soltanto al ruolo determinante che molti ebrei hanno avuto in ogni campo nei paesi che li hanno accolti.
Il mondo ha interiorizzato l’insegnamento di quegli anni oppure nell’era della globalizzazione di ogni cosa, evento e notizia si può ancora fingere di non sapere cosa accade ai nuovi “ebrei” del XXI secolo?
A distanza di quindici anni da quella risoluzione, resta da chiedersi quali altri popoli stiano subendo oggi la medesima persecuzione degli ebrei, pianificata più o meno scientificamente, nel silenzio del mondo, il medesimo che gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt osservarono per anni e fino a poco prima dell’ entrata in guerra nel 1941, sottovalutando, se non ignorando i drammatici allarmi che provenivano da quanti conoscevano l’esistenza dei campi di sterminio in Germania e in Polonia e ne fornivano notizia in modo clandestino ai propri parenti emigrati negli USA.
Oggi, esposti al rischio di genocidio sono soprattutto gli Yazidi in Iraq, i musulmani Rohingya in Birmania e gli Uiguri nella Cina comunista. A questi popoli vengono sistematicamente negati i più elementari diritti umani.
Gli Yazidi, di antica etnia curda, hanno subìto secoli di repressioni. I media di tutto il mondo sembrano aver scoperto l’esistenza di questa minoranza solo nell’estate del 2014, quando i miliziani dell’Isis lanciarono una offensiva contro migliaia di Yazidi stretti in un lungo assedio sul monte Sinjar, in Iraq. Mentre la bandiera nera del Califfato sgretolava i fragili confini tra Siria e Iraq, eredità degli accordi Sykes Pikot del 1916, questa popolazione viveva una delle pagine più nere della storia recente.
Costretti alla conversione forzata o uccisi sul posto, in pochi sono riusciti a sopravvivere alla furia islamista. Le immagini di bambini a terra, con le ferite sulla testa, hanno riportato con violenza indietro nel tempo agli Anni 80 e 90, alle persecuzioni di Saddam Hussein nei confronti dei curdi, a quelle dei serbi a danno dei musulmani bosniaci. A seguito della persecuzione avviata dallo “Stato Islamico” contro gli Yazidi, l’ONU stima che 5000 di essi siano stati uccisi e 5000-7000 catturati e venduti come schiavi, mentre altri 50.000 sono stati costretti ad abbandonare la regione per evitare analoga sorte.
Oltre il sub continente indiano, i Rohingya sono una minoranza musulmana nel mirino dei buddisti in Birmania (oggi Myanmar). Non hanno cittadinanza nè diritti. Considerati stranieri nella propria terra, sono rifugiati senza identità nel resto del mondo. Per l’Onu si tratta della minoranza più perseguitata al mondo. Guardati con sospetto perchè musulmani in terra buddista, i Rohingya sono stati costretti a vivere per anni in uno stato di apartheid. Una condizione in cui si trovano ancora oggi circa 1 milione e 300 mila rohingya che vivono soprattutto nel Rakhine, una regione sul golfo del Bengala che confina a Nord con il Bangladesh. Paradossale è al riguardo la storia di Aung San Suu Kyi che divenne un’icona della non-violenza e della pace. Fu tenuta agli arresti domiciliari per anni e fece della difesa dei Rohingya la propria causa.
Gli U2 le dedicarono un brano intitolato Walk On (“Vai avanti”). Per questo motivo è illegale importare, detenere o ascoltare in Birmania l’album della band irlandese All That You Can’t Leave Behind, in cui è contenuto tale testo. La sanzione prevista è la reclusione da tre a vent’anni. Nel 2011 il popolare regista francese Luc Besson ha diretto il film The Lady incentrato sulla vita del premio Nobel birmano. Nel 2014 Marco Martinelli ha scritto Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi e l’ha messo in scena con il suo Teatro delle Albe-Ravenna Teatro, con il patrocinio di Amnesty International e della Associazione Italia-Birmania. Guy Delisle ha realizzato nel 2007 la graphic novel “Cronache Birmane” (titolo originale “Chroniques Birmanes”), in cui narra di quando, con la moglie Nadège (medico di Medici Senza Frontiere) e il figlio, ha vissuto per un periodo in vicinanza dell’abitazione in cui Aung San Suu Kyi scontava gli arresti domiciliari.
Ebbene, il 13 novembre 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata. Il 1º aprile 2012 ottenne un seggio al parlamento birmano. Il 16 giugno 2012 finalmente potè ritirare il premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991. Successivamente dato che le era stato finalmente concesso il permesso dal Governo birmano iniziò a visitare vari paesi dove ricevette la cittadinanza onoraria. L’11 novembre 2015 la Lega Nazionale per la Democrazia ottenne nelle elezioni 291 seggi. Si trattò delle prime elezioni libere dal colpo di Stato de l 1962. Dal 30 marzo 2016, con l’insediamento del governo formato da Htin Kyaw, è diventata Ministro degli Affari esteri, della Pubblica Istruzione, dell’Energia elettrica e dell’Energia e Ministro dell’Ufficio del Presidente.
Nel nuovo e preminente ruolo il suo interessamento verso la tragedia dei Rohingya sembra esser svanito nel nulla, al punto che nel settembre 2017 è stata oggetto di critiche da parte di un’altra Premio Nobel per la pace, la pakistana Malala Yousafzai, che, a proposito delle violenze perpetrate dall’esercito birmano contro quella minoranza musulmana , le ha intimato attraverso un tweet “Condanni violenze contro i Rohingya“. Anche il ministro degli esteri britannico Boris Johnson ha avvertito la leader birmana che questi fatti stavano “sporcando” la reputazione del paese. Le forze di sicurezza birmane, invece, accusano i ribelli Rohingya dell’incendio dei villaggi e delle atrocità contro la loro stessa gente nello stato di Rakhine.
Numerose altre proteste si sono succedute nel 2017 sullo scacchiere internazionale contro Aung San Suu Kyi e il suo comportamento giudicato indifferente – quando non propriamente ostile – nei confronti dei musulmani Rohingya. Di tali contestazioni si sono resi protagonisti artisti come Bono degli U2 e Bob Geldof, mentre istituzioni come il Comune di Oxford, il sindacato britannico Unison e l’Università di Bristol hanno ritirato le onorificenze precedentemente concesse. Alcuni esperti di crimini di stato dell’Università di Londra Queen Mary hanno segnalato che Suu Kyi sta “legittimando questo genocidio” in Myanmar e che nonostante la continua persecuzione «non vuole neanche ammettere, figuriamoci provare a bloccare, la conclamata campagna di stupri, omicidi e distruzione perpetrata da parte dell’esercito ai danni dei villaggi Rohingya, popolo al quale non vuole neppure concedere la cittadinanza”.
In estremo oriente, gli Uiguri sono il popolo che la Cina vuole cancellare. Sono cittadini di serie B, considerati parte di un’etnia inferiore rispetto alla maggioritaria etnia han. Per questo vanno tenuti alla larga affinchè non “contaminino” il resto del popolo cinese. La rivoluzione del 1949 poggiava su alcuni pilastri tra cui il ruolo preponderante del partito comunista, l’eliminazione dei culti religiosi presenti sul territorio e, appunto, la centralità dell’etnia han. Un nazionalismo mosso dal desiderio di inglobare territori come il Tibet e lo Xinjiang, ricco di importanti giacimenti di combustibili fossili. È qui che risiedono da secoli gli uiguri, gruppo etnico turcofono di circa 10 milioni di persone che professano la fede musulmana sunnita.
Dal 1949 in poi, mentre il Paese si incamminava verso uno sviluppo economico senza precedenti, il centralismo di Pechino inglobava le tante etnie presenti in Cina per creare un popolo cinese che seguisse l’unica fede possibile, quella comunista. In linea con i dettami del partito, dagli Anni 50 del secolo scorso è stato portato avanti un vero e proprio programma di “sommersione etnica”. I cinesi han sono stati trasferiti nei territori a maggioranza uigura per cancellare la loro identità. Considerati senza diritti, per gli uiguri è difficile trovare un lavoro, inserirsi nella vita politica, ambire a ricoprire incarichi pubblici. Normalmente, sono destinati ai lavori più duri che i cinesi di città non vogliono più fare.
Dal 2001, la Cina ha fatto rientrare la sua «operazione di assimilazione forzata del popolo uiguro» sotto il cappello della lotta al terrorismo islamico intrapresa da Stati Uniti e Gran Bretagna. Nonostante la repressione cinese, le tensioni etnico-religiose sono riaffiorate con tutta la loro forza tra il 2008 e il 2009, quando il movimento separatista uiguro ha lanciato una serie di attentati che hanno scosso il Paese. Tra i gruppi più attivi c’è il Movimento islamico del Turkestan orientale, considerato organizzazione terroristica sia dalla Cina sia dagli Stati Uniti.
In questo clima di violenza continua, lo Xinjiang ormai non è più un luogo per gli Uiguri e molti di loro cercano di fuggire in Malesia passando per il Vietnam. Un viaggio pericoloso durante il quale spesso finiscono ostaggio delle teste di serpente, i trafficanti di uomini cinesi. Alla frontiera con il Vietnam c’è un altro ostacolo difficile da superare: la polizia di Pechino, pronta a sparare su coloro che cercano di lasciare illegalmente il Paese.
Anno dopo anno, gli Uiguri sono sempre più soli. E la loro emarginazione potrebbe essere sfruttata da quel terrorismo di matrice islamica che l’establishment comunista cinese ha da sempre represso, anche quando non c’era. Recentemente Pechino è passata dalla negazione dei campi di detenzione nello Xinjiang alla loro giustificazione in nome della lotta al fondamentalismo Dall’inizio del 2017 un numero enorme di Uiguri, Kazaki e altri gruppi etnici della regione autonoma yuigura dello Xinjiang, nella Cina nordoccidentale, hanno riferito di essere stati inviati nei cosiddetti centri di “trasformazione attraverso l’istruzione”. Secondo alcuni osservatori, da uno a tre milioni di persone – dei circa 12 milioni di musulmani di lingua turca nella regione – sono stati chiusi in queste strutture, che molti sopravvissuti descrivono come simili ai campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale.
Solo pochi ex detenuti rifugiatisi all’estero sono stati disposti a parlare con i media di ciò che era loro accaduto – lavaggio del cervello, torture e altri maltrattamenti – durante la detenzione. Il governo cinese ha inizialmente negato l’esistenza dei campi quando ha dovuto confrontarsi con le denunce dei media e con gli allarmi del Comitato Onu contro la discriminazione razziale. Si è poi affrettato a passare alla costruzione di una narrazione che li giustificasse, affermando che sono nell’interesse degli Uiguri e degli altri gruppi etnici in quanto le persone recluse ricevono “formazione professionale” e assistenza per liberarsi da convinzioni “radicali” ed “estreme”. Insomma ancora una volta si consuma la menzogna che sovrasta il cancello di Auschwitz: “Arbeit macht frei”
Oltre alle testimonianze di ex detenuti e di loro parenti all’estero, sono trapelati documenti ufficiali che svelano le politiche del governo cinese sulla gestione dei campi e le pratiche di sorveglianza, tra cui il riconoscimento facciale e la raccolta di big data relativi agli Uiguri (e altri) nella regione. Ciò ha suscitato molte preoccupazioni sul modo in cui le minoranze etniche vengono effettivamente trattate in queste strutture. Se i campi sono solo per la “formazione professionale”, come sostiene il governo, perché i familiari dei detenuti non possono raggiungerli e sapere dove si trovano? E perché così tanti parenti di detenuti rischierebbero la propria sicurezza inventandosi queste storie? Alcuni sono stati rinchiusi semplicemente perché avevano WhatsApp sul cellulare, o per aver inviato messaggi ai loro familiari all’estero: in che modo questo comporterebbe la reclusione per “formazione professionale” o “de-estremizzazione”? Tra i detenuti ci sono professionisti molto istruiti, facoltosi uomini d’affari o anche membri e funzionari del partito comunista, oltre a pensionati. Fu così’ anche per gli ebrei tedeschi, molti dei quali erano stati decorati durante la Grande Guerra.
Un drammatico aggiornamento sulla loro situazione è stato registrato da Patrick Poon, della Commissione Giustizia e Pace della Diocesi di Hong Kong che a maggio quest’anno ha dichiarato: “Tra circa 400 uiguri, kazaki e altri residenti all’estero con cui ho parlato, la maggior parte non ha idea del perché i propri cari nello Xinjiang siano stati imprigionati. L’unico motivo che riescono a immaginare è la loro etnia, cultura o pratica religiosa. Alcuni hanno saputo da altri parenti che i loro fratelli erano detenuti semplicemente perché avevano la barba in stile uiguro, indossavano il velo o tenevano il Corano a casa.”
Senza libero accesso per gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite, per ricercatori e giornalisti, la situazione nei campi è avvolta nel mistero. Il governo cinese ha affermato che molti vi si sono laureati. Alcuni potrebbero essere stati rilasciati, ma per essere inviati in fabbriche in altre province per essere sfruttati, visto che vari rapporti hanno mostrato che fornitori di molte multinazionali avrebbero impiegato uiguri e altri cittadini appartenenti a minoranze come manodopera a basso costo o lavoratori forzati. Non sapere, poi, se l’epidemia di Coronavirus stia colpendo i campi peggiora la situazione. La mancanza di trasparenza sommata all’autoritarismo del governo crea un mix letale e il film statunitense “Mulan” del 2020, remake dell’omonima opera di animazione prodotta dalla Disney nel 1998, ha suscitato in settembre violente polemiche da parte del governo cinese che lo ha censurato con il pretesto che contribuisse ad alimentare i gravi disordini di Hong Kong.
Davanti a questi crimini contro l’Umanità, come si comporteranno l’Unione Europea e soprattutto l’amministrazione del neo presidente Joe Biden? Il DNA democratico e la politica aperturista nei confronti del mondo, contrapposta all’isolazionismo di Donald Trump durato quattro anni, coinciderà con il ruolo di “campioni della Libertà in ogni parte del mondo” di cui anche noi italiani siamo debitori o Uncle Joe si volterà dall’altra parte come già fece Roosevelt alla fine degli anni ‘30? E la sua vice, la laica Kamala Harris, nata a Oakland da madre indo-americana immigrata da Chennai in India e da padre di origine giamaicana, resterà indifferente ai drammi che si stanno consumando in quei paesi a danno di uomini, donne, bambini e anziani ? La guerra commerciale con il colosso cinese sarà anche una lotta di liberazione dei popoli oppressi come avvenne nella Seconda Guerra Mondiale?
Tra le tante aspettative che in tanti nutriamo verso nuova Era vaccinata contro le epidemie del corpo e dello spirito, vorremo presto avere una risposta anche a questi interrogativi. Lo dobbiamo alle generazioni che vissero nel tempo dell’Olocausto e soprattutto alle nuove a cui vorremmo consegnare non solo il ricordo e il monito di quegli anni ma anche la responsabilità che avremo saputo assumerci in quelli che oggi viviamo.
Una carissima amica mi ricorda spesso i versi del poeta post elisabettiano John Donne che Ernest Hemingway pose in esergo all’ omonimo romanzo scritto nel 1940:
“Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso
Ogni uomo è parte della terra
Una parte del tutto
Se una zolla è portata via dal mare
L’Europa risulta essere più piccola
Come se fosse un promontorio
Come se fosse una proprietà di amici tuoi
Come se fosse tua
La morte di ciascun uomo mi sminuisce
Perché faccio parte del genere umano
E perciò non chiederti
Per chi suoni la campana
Suona per te.”
(Devotions upon Emergent Occasions. XVII Meditation, Londra, 1624)