Nel mondo di oggi, caratterizzato da un impoverimento culturale che non lascia spazi alle singolarità, la diversità non è apprezzata anzi spesso è combattuta e osteggiata. In tutti i settori. Anche quelli che riguardano popolazioni e culture diverse da quella globale ormai quasi unica. Oggi l’identità come popolo sopravvive solo in poche tribù (sempre meno: secondo alcuni costituirebbero solo il 4% della popolazione mondiale).
L’Africa è ormai forse solo l’unico continente dove ciò è possibile più che altrove. Solo questo continente non ha subito massicci flussi migratori in entrata. Anche le pressioni durante il colonialismo e dopo con le élites post-coloniali non hanno impedito ad alcuni gruppi etnici di restare indipendenti. Sebbene a prezzo di una sempre maggiore marginalizzazione.
Uno di questi gruppi è quello degli Himba, popolazione seminomade che vive nel Kaokoland, una delle regioni più selvagge e inospitali dell’Africa, nella Namibia settentrionale. Vivono lontani dal mare (che da sempre aiuta e favorisce gli scambi tra i popoli) ai confini con il deserto del Namib, che (non a caso) significa ‘scudo’. Un deserto arido e pericoloso, ma che, per secoli (almeno dalla metà del XVI secolo), ha protetto gli Himba dai tentativi di colonizzazione, prima da parte dei navigatori portoghesi e poi del governo centrale.
Il nome Himba pare provenga dalla lingua Otjiherero e significherebbe “mendicante”. Un termine dispregiativo legato forse alla povertà (solo apparente) di chi vive con pochi mezzi in una terra che non offre quasi niente. Qui gli Himba si sono integrati in modo sorprendente con l’ambiente e con la terra anche grazie a tradizioni antichissime per molti motivi sorprendenti. Prima fra tutte il fatto che la loro è una società quasi matriarcale, dove le donne sono rispettate, i loro diritti sorprendenti anche nel confronto con molti paesi “sviluppati” e dove ricoprono un ruolo fondamentale: sono loro che svolgono i lavori più importanti (non necessariamente i più pensanti). A loro è affidata la cura del “fuoco sacro” al centro del villaggio: la cura del fuoco per rendere omaggio al loro dio Mukuru, lo spirito del bene che protegge gli abitanti del villaggio dai demoni, è affidata alla donna più anziana del villaggio.
Un fuoco che resta sempre acceso. Non viene mai spento. Gli Himba sono monoteisti. Ogni famiglia ha un proprio fuoco ancestrale (ricordano le pratiche dei romani) che è custodito dal guardiano del fuoco. Le donne Himba da sempre sono famose per la loro bellezza e per il fisico statuario e di statura elevata che ha poco da invidiare alle modelle delle riviste di moda. Una bellezza che molti reporter hanno ritratto fotografando i loro corpi statuari quasi sempre coperti di ocra rossa. Una pratica, quella di coprirsi il corpo di una mistura chiamata otjize, una crema a base di erbe, burro e ocra che copre anche i capelli e dona alle donne una forte colorazione rosso terra, che è prima di tutto funzionale e solo in un secondo momento estetica.
La poca acqua serve per dissetare le persone e gli animali. Solo gli uomini possono usarla per lavarsi. Alle donne non resta che utilizzare la otjize che pulisce la pelle e la protegge dal caldo, dalla sabbia e dalle punture di insetti. Per lavarsi senz’acqua, di tanto in tanto, le donne Himba ricorrono ad un sistema ingegnoso: accendono un piccolo fuoco con delle essenze profumate e vi si pongono sopra, quindi usano il sudore prodotto per le abluzioni.
L’organizzazione sociale è sorprendente: ciascun membro di un gruppo appartiene contemporaneamente a due clan, quello patriarcale (chiamato oruzo) e quello matriarcale (eanda, che significa origine). Per via materna si trasmettono la proprietà del bestiame e della terra. Per la via paterna, invece, si trasmettono la residenza e l’autorità familiare.
Il concetto di proprietà è ben diverso da quello spasmodicamente materialistico ormai diffuso su quasi tutto il pianeta: tra gli Himba, i beni della società appartengono a tutto il gruppo che non è organizzato (altra anomalia) in modo gerarchico ma orizzontale.
Gli Himba si sono adattati in modo sorprendente all’ambiente e al territorio nel quale vivono. La loro è una società egualitaria dove la proprietà è di tutti e di nessuno in particolare. Che senso avrebbe litigare per una terra che produce poco? Anzi pochissimo. Le rare zone non desertiche servono per pascolare il bestiame e per raccogliere mahangu, un tipo di miglio che cresce bene anche in terreni a bassa fertilità. Sono una popolazione seminomade: tutto ruota intorno alla ricerca di pascoli per il bestiame che venerano e proteggono. Per questo popolo è il bestiame l’unica ricchezza e il possesso degli animali coincide con il concetto stesso di potere. Raramente gli Himba mangiano carne. Poche le eccezioni. Ad esempio, durante i matrimoni, le cui regole sono a dir poco sorprendenti.
Il matrimonio non è solo l’unico momento in cui si mangia carne ma anche quello in cui si parla, in un certo senso, di proprietà. Anche il rapporto di coppia non è comune. Ancora una volta emerge una parità tra i sessi sorprendente: la dote che il futuro sposo versa alla famiglia della sposa per compensarla della perdita della figlia spesso consiste in tre animali: uno (una mucca o una pecora) per il padre della sposa, uno per la madre e uno per celebrare il matrimonio. Ma non basta.
Le coppie vengono decise quando i futuri sposi sono ancora neonati, ma si celebra solo molti anni, anzi molte “Lune” e “Soli” dopo (gli Himba non misurano il tempo in ore o anni, ma in giorni – Soli – e in cicli lunari – Lune). Per questo spesso i matrimoni sono precoci e non sono rari i casi di spose bambine di età pari o inferiore a 10 anni (anche se questa pratica è illegale in Namibia). Gli Himba sono poligami: un marito può avere più mogli contemporaneamente, ma ancora una volta la parità tra i sessi è sorprendentemente salvaguardata: se una donna Himba è “infelice”, è libera di lasciare il proprio marito.
Aspetti sociali e culturali che manifestano singolarità che non potevano non portare ad uno scontro con il governo centrale sempre più sottoposto a regole che poco hanno a che vedere con le tradizioni e con le necessità legate all’ambiente. Problemi, soprattutto dal punto vista dei diritti umani, che, a Febbraio 2012, sono finiti in due documenti dell’Unione Africana e dell’OHCHR delle Nazioni Unite: la “Dichiarazione dei più colpiti Himba, Ovatwa, Ovatjimba e Ovazemba contro la diga Orokawe nei monti Baynes” e, soprattutto, la “Dichiarazione dei leader himba tradizionali del Kaokoland in Namibia” nella quale sono elencate le violazioni dei diritti civili, culturali, economici, ambientali, sociali e politici perpetrate dal governo della Namibia (GoN).
A settembre dello stesso anno, il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni si è recato in visita presso gli Himba e ha accertato alcune anomalie correlate al mancato riconoscimento delle terre comuni delle tribù indigene minoritarie da parte del governo centrale. Da allora le proteste degli Himba si sono ripetute e si sono incrociate con diversi tentativi di corrompere i capi tribù ed esercitare pressioni di ogni genere per consentire la costruzione di una diga nel territorio Himba di Epupa. Nessuno ha capito che la vera ricchezza di questo popolo (come di altri in varie parti del pianeta) non è il territorio in cui vivono, peraltro semidesertico, né la loro posizione geografica: la loro vera ricchezza è essere “unici”. Una unicità che li rende diversi. Diversi in un mondo dove l’unica cosa che interessa è essere tutti uguali per poter vendere i prodotti di questa o quella multinazionale. Prodotti che agli Himba non servono e non serviranno mai. Finchè resteranno unici.