“Naturalmente, un manoscritto”
(Umberto Eco, prefazione a Il Nome della Rosa, incipit)
Il furetto è un carnivoro appartenente alla famiglia dei mustelidi che comprende oltre 65 specie diffuse in tutto il mondo e prende il nome dalla loro preda preferita: il topo (mus, muris in latino, mouse in inglese, souris in francese da cui il siciliano surci)
Il furetto domestico come specie in natura non esiste, è un incrocio ottenuto dalla puzzola e circa due o tremila anni fa è stato reso domestico. I furetti sono stati incrociati specificamente per far uscire i conigli dai cunicoli. Per la caccia veniva messa loro la museruola generalmente, o il guinzaglio, così che non potevano danneggiare i conigli; veniva poi sistemata una rete all’ingresso del tunnel che permetteva al proprietario del furetto di poter afferrare le prede. Sebbene i furetti siano stati usati per cacciare, sono stati addestrati a non uccidere, poiché avrebbero rovinato la pelle dei conigli che non si sarebbe potuta conciare. Come risultato, si è ottenuto un animale con uno tra i più acuti istinti di caccia.
Nella storia ci sono numerose citazioni di furetti domestici: nelle commedie di Aristofane tra il V e il IV secolo avanti Cristo, negli scritti di Storia Naturale di Plinio il Vecchio del I secolo e in numerosi resoconti medievali e rinascimentali che vedono come protagonisti Gengis Khan e Federico II di Svevia, Stupor mundi, appassionato cacciatore con l’ausilio di animali addestrati (si veda il trattato De Arte venandi cum avibus, oggi conservato nei Musei Vaticani) che avrebbe introdotto l’animale in Sicilia.
Una legge inglese del 1390 stabiliva che fosse concesso possedere un furetto solo a chi guadagnava 40 scellini (circa 300 sterline al giorno d’oggi) o più all’anno. I signori inglesi benestanti pagavano un cacciatore che aveva casa nella tenuta del Lord, essa includeva una stanza separata per i furetti. Si dice anche che la leggenda del pifferaio di Hamelin di cui ho scritto altrove derivi dalla pratica di richiamare i furetti dalle tane usando un flauto. Presenti in molti dipinti ed affreschi, anche Leonardo da Vinci ha ritratto un furetto nel celebre quadro erroneamente denominato “La Dama con l’Ermellino” lontano cugino del furetto al pari del visone, naturalmente aggressivi. La querelle ha affascinato i critici d’arte poichè l’ermellino è un animale selvatico mordace e difficilmente ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto che è un animale domestico, come il gatto, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde dell’epoca. Molte sovrane tra cui Elisabetta I e la regina Vittoria li tennero come animali da compagnia.
I furetti vengono allevati e venduti come mezzo per il controllo dei roditori, soprattutto nelle fattorie e nei granai. Il Dipartimento per l’Agricoltura Americano incoraggiò la pratica. I furetti erano così popolari che nel 1915 un’intera città in Ohio, New London, venne detta “Ferretville” (il paese dei furetti); probabilmente ispirò la Topolinia di Walt Disney, disegnata nel 1928. Più tardi, prima della Seconda guerra mondiale, la disponibilità dei rodenticidi chimici – che oggi sappiamo essere molto inquinanti – fece cadere in disuso tale modalità di derattizzazione professionale. Se ne torna a parlare nel dibattito ecologico più avanzato. La caccia con il furetto è autorizzata in Sicilia con forti limitazioni e in un periodo molto breve della stagione di caccia.
Nei mesi scorsi si è parlato dei Mustelidi per il massiccio contagio da Covid 19 che ha reso necessario l’abbattimento di milioni di visoni da allevamento in Danimarca e di ventottomila nella sola Italia, come riportato dal quotidiano la Stampa del 20 dicembre scorso…
Nella primavera di alcuni anni fa mi decisi a fare un po’ d’ordine tra tante carte non catalogate riguardanti appunti di viaggio, ritagli di giornale, mappe stradali d’Europa, insomma, tutte quelle cose che oggi archiviamo in un computer o che ci vengono fornite a semplice richiesta da un navigatore di bordo o da altri dispositivi dalle infinite risorse.
Tra le pile di fogli già pronti per essere conferiti al contenitore per la raccolta della carta, scivolò un quadernetto a spirale sul cui frontespizio era scritto con grafia ordinata il seguente titolo: “La caccia con il furetto”. Seguiva la dedica “A mio cugino Luigi, ricordando una bella passeggiata alla Rocca” C.
Un segnale si accese nella mia memoria riportandomi ad un evento di molti anni prima quando, dopo discussioni durate mesi tra l’appassionato cacciatore gentiluomo e il boy scout animalista, C. mi invitò ad un’escursione venatoria in un terreno pietroso di sua proprietà. A caccia, è risaputo, si va in ore antelucane per cogliere gli animali appena usciti dalle tane in cerca di cibo. Vinsi la mia naturale avversione a qualsiasi attività che avesse luogo prima delle dieci del mattino e per la grande stima che avevo di lui, unita al piacere della sua generosa amicizia, fui lieto di accompagnarlo. Ancora oggi la sua saggezza mite ma decisa mi manca molto.
Si andava, o meglio, lui andava per conigli selvatici la cui caccia era consentita in quel periodo, in una di quelle mattine di ottobre che in Sicilia preparano ai giorni di San Martino stabilendo la continuità con l’estate che soltanto da allora in poi comincia a declinare verso l’autunno. Durante il percorso accidentato, C. mi introdusse al mondo della caccia: le tecniche, i richiami per gli uccelli, i trucchi, la prudenza, il silenzio e il “galateo” del cacciatore gentiluomo a cui teneva molto. A metà mattina, durante una pausa all’ombra che oggi rivedo nella mente come quella del principe di Salina e di don Ciccio Tumeo, ne “Il Gattopardo” mi fu raccontata la leggenda tramandata dagli anziani cacciatori e che avrebbe dato origine alla tecnica venatoria con il furetto ancora oggi in uso, pur con ampie limitazioni, nell’isola. C. non l’approvava, ma ne conosceva ogni sfumatura. Grazie al quadernetto ritrovato, ne riporto il testo:
“Nei tempi antichi, quando gli animali parlavano, la campagna era governata da una lince che tutti avevano scelto per la saggezza e l’intelligenza con cui anni prima aveva messo fine ad una faida secolare. Si dà il caso che, non si sa bene come e perché, nel bosco giungesse un coniglio molto vorace che allettava gli altri animali con ogni genere di compiacenza: ad uno evitava di rosicchiare gli ortaggi nella zona prediletta, ad un altro scavava una tana profonda, ad un altro ancora indicava le tracce di possibili prede. Insomma, a poco a poco, si era fatto una cospicua sequela di amici che spesso gli avevano proposto di diventare il sovrano della zona. La lince non dava eccessivo peso alle dicerie che le venivano riportate: ne aveva viste e sentite tante e la sua prudenza l’aveva sempre ben consigliata.
Una mattina, però, si recò da lei un porcospino – ce ne sono tanti in Sicilia (ndr) – che lamentava quanto il coniglio fosse diventato arrogante e come, dietro l’apparente generosità, coltivasse grandi ambizioni, confidando nell’aiuto dei tanti animali da lui stesso beneficiati in vario modo. La lince chiamò il coniglio e complimentandosi per il seguito che aveva costruito in così breve tempo, lo invitò a presentarsi a tutti gli animali per farsi scegliere. In quella circostanza si rivelò per la prima volta la natura maligna del nuovo arrivato. Protestando con clamore per farsi sentire da quanti più seguaci possibili, il coniglio accusò la lince di non voler cedere il proprio posto e la minacciò di capeggiare una rivolta che l’avrebbe rovesciata. La lince lo lasciò inveire sino a quando le sue orecchie non diventarono paonazze per la rabbia: era chiaramente una spacconata poiché essa sapeva quanto forte fosse la stima della maggioranza degli altri animali nei propri confronti e come non avesse nulla da temere dal coniglio prepotente; tuttavia, saggia com’era, gli consigliò di calmarsi e di prepararsi nel tempo a conquistare gli animali con il proprio comportamento verso tutti, senza fare ricorso a regali ed a favori riservati soltanto ai propri seguaci.
Il coniglio capì subito quanto fosse stato avventato ad inveire in modo così plateale contro la lince e per alcuni mesi non si fece più vedere in giro, continuando ad operare in silenzio, masticando carote amare, fino a quando accaddero fatti che cominciarono a preoccupare tutti gli animali. Pare che il coniglio, in compagnia di altri roditori suoi sodali venuti non si sa bene da dove, avesse cominciato a divorare le erbe e gli ortaggi delle zone del bosco abitate da quanti non gli avessero professato fedeltà. Con l’approssimarsi dell’inverno una simile sciagura avrebbe impedito agli animali di fare provviste da accumulare nelle tane. Sarebbero così sopravvissuti soltanto i suoi seguaci che avrebbero accusato la lince di non aver saputo provvedere al bene di tutti e l’avrebbero deposta.
Era troppo! La lince chiamò nuovamente il coniglio e gli chiese se quanto stesse accadendo fosse vero. Ancora una volta il coniglio la aggredì, sviando le accuse, attribuendole la colpa di voler governare per sempre e aggiunse che avrebbe chiamato presto tutti gli animali per processarla e deporla. Intanto, però, essendo pur sempre un coniglio, corse a rifugiarsi in una tana molto stretta e profonda, covando vendetta.
La lince rifletté a lungo, si rese conto che il pericolo era divenuto reale e temette che presto l’armonia tra tutti gli animali che tanto le stava a cuore sarebbe stata messa a repentaglio dall’operato del coniglio che minacciava le risorse vitali per la comunità. Aveva soltanto due possibilità: denunciare a tutti le trame del coniglio o liberarsene. Nel primo caso, si sarebbero create fazioni tra i “clienti” del coniglio, ormai in costante aumento e il resto degli animali; molte sarebbero state le vendette incrociate e infinite le maldicenze su di lei, costruite con l’arte del mascariamento per costringerla a lasciare il proprio posto, facendo così il gioco del coniglio.
Non restava che una strada. Senza avvisare alcuno, la lince si recò un giorno presso una famiglia di pacifici furetti e complimentandosi per una nuova nidiata nata da pochi giorni, osservò i cuccioli. Uno di essi, il più gracile, mostrava però segni di grande vivacità, si faceva largo con decisione al momento della poppata e, a differenza dei fratelli con gli occhi ancora chiusi, aveva uno sguardo già fiero e colmo di curiosità. La lince chiese di poterlo prendere con sé, la famiglia, che lo riteneva troppo debole per sopravvivere, accettò.
Iniziò così l’addestramento del cucciolo che apprese presto come graffiare ed azzannare le prede, a scavare lunghe gallerie nella terra friabile, ad individuare i rifugi degli altri roditori, a sfuggire ai cacciatori di pellicce. Quando ritenne che fosse pronto, la lince lasciò libero il furetto di esplorare il terreno e di individuare, tra le tane di cui era disseminato, quella del coniglio malvagio. Nonostante essa fosse ben mimetizzata e molto profonda, il fiuto finissimo del furetto non impiegò molto tempo a rintracciarla e una notte riuscì a penetrare nel cunicolo, azzannare il coniglio e trascinarlo all’aperto dove lo lasciò sanguinante ma ancora vivo, come aveva imparato a fare. La notizia si sparse presto per la campagna e nessuno riusciva a capire come il furbo coniglio si fosse fatto sorprendere da qualche belva che lo aveva aggredito prima che esso potesse rintanarsi al sicuro.
Ma proprio perché era furbo, il coniglio capì che c’era la lince dietro l’accaduto ma, non potendolo provare, si rese conto che da quel momento non avrebbe avuto vita facile e che la volta successiva sarebbe stata per lui fatale. La lince fu la prima a salutarlo e ad augurargli buona fortuna quando il coniglio annunciò che sarebbe andato dove un’aria diversa lo avrebbe aiutato a guarire dalle ferite. Non se ne ebbero più notizie. La sua ricca e confortevole tana fu fatta franare perché insieme ad essa si perdesse il ricordo di chi l’aveva abitata. Non ci volle molto tempo.
La lince trascorse gli ultimi anni circondata dal rispetto di tutti e dalla compagnia del furetto ormai diventato troppo aggressivo per i propri simili. Quando, fattasi anziana, fu il momento di lasciare l’incarico ad un altro saggio animale che frattanto era stato scelto come suo successore, si avviò verso il villaggio più vicino e lasciò un fagotto sulla soglia della capanna di un cacciatore che molti anni prima, vedendola cucciolo incerto ed esitante, l’aveva risparmiata. Da quel momento la tecnica del furetto cominciò ad essere praticata in Sicilia e nessun coniglio fu più al sicuro anche nella tana più profonda.”
Credo di aver imparato alcune cose durante quella passeggiata anche se, come accade spesso, avevo dimenticato il collegamento con la specifica esperienza in cui furono contestualizzate: il bene trionfa anche quando il male sembra eterno ma richiede alcuni accorgimenti tattici che “le anime belle” spesso ignorano, finendo così con il fare più danni di quelli che intendono riparare o nel migliore dei casi rivelandosi ininfluenti; l’ambiente, sia nelle manifestazioni della natura che in quelle sociali e politiche tende sempre verso l’omeostasi cioè l’equilibrio delicato tra le energie in campo che spesso è messo in pericolo da errori quasi sempre umani; l’immersione nella natura, oggi sempre più accompagnata da macchine fotografiche piuttosto che da fucili è un’esperienza educativa insostituibile sin dalla più tenera età. Infine, nessuna creatura è buona o cattiva, ciascuna segue semplicemente il proprio istinto naturale che ha un posto e una funzione nell’ecosistema. Soltanto l’uomo, a motivo della ragione, ha il potere di declinare gli istinti verso forme talvolta sideralmente lontane dalla natura animale che pure condivide e ciò accade sia perseguendo il bene che il male: si chiama “libero arbitrio” e da esso discendono responsabilità, meriti e colpe che possono cambiare in meglio o in peggio il mondo in cui viviamo. Ed è questo è il motivo della massima grandezza umana o della sua più nera miseria interiore.
In questi mesi confusi, in cui siamo preda di mille mistificazioni, lascio che la morale della favola che ho voluto far rivivere su queste pagine sia tratta attraverso la libera interpretazione che il lettore de Lo Spessore vorrà fare, con il consueto avvertimento che “ogni riferimento a persone, animali realmente esisti o a fatti accaduti è puramente casuale”. Intelligenti pauca!