L’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci sono periti lunedì scorso, insieme all’ autista congolese Mustafà Milambo, in un agguato teso alla colonna umanitaria con cui viaggiavano a bordo di un’auto dell’ONU, in una regione del Nord Kivu; mentre questo articolo viene scritto, si apprende che proprio l’ambasciatore era l’obiettivo di un rapimento attentamente pianificato, probabilmente con la complicità di basisti, a fini di riscatto. Terribili i dettagli parziali finora pervenuti secondo i quali il diplomatico già ferito e intrasportabile sarebbe stato trascinato nella foresta e poi colpito a morte. Il drammatico evento ha riportato alla memoria, in un tragico sessantennale, la strage di Kindu del 1961 durante la quale furono trucidati tredici aviatori italiani in missione di aiuti alimentari alla popolazione civile per conto della medesima organizzazione.
Un ricordo pubblico ma anche familiare, poiché tra le tredici vittime, cadde anche Filippo Di Giovanni, Medaglia d’oro, maresciallo motorista di uno dei due aerei C-119, il MM51-6049 – nome radio Lupo 33 – comandato dal capitano pilota Giorgio Gonelli di Ferrara. Era nato a Palermo il 7 marzo del 1919 e dopo la tragedia gli fu intitolata una strada nella zona nord della città. A chi scrive, che all’epoca aveva sei anni, la storia fu raccontata più volte negli anni successivi da zii di secondo grado, parenti prossimi del caduto e ciò si ripeté in svariate occasioni.
Mi imbattei più tardi, in quella tragica lista di nomi, studiando la storia travagliata dell’ex Congo belga, diviso, dopo l’apparente ritiro dei colonialisti nipotini di Leopoldo II, in due nazioni: la Repubblica del Congo, poi Zaire sino al 1997 e oggi Repubblica Democratica del Congo con capitale Kinshasa e il Katanga secessionista, con capitale Lumubashi, che sopravvisse come tale fino al 1963.
Nel 2018 Valerio Massimo Manfredi ha descritto quegli anni con lo stile storico/romanzesco che gli ha permesso di lasciarsi alle spalle un’Università poco riconoscente, nel libro Quinto Comandamento, edito da Mondadori, la cui lettura consiglio, avendolo terminato nel giro di un paio di giorni con momenti di grande emozione. Le vicende sono narrate in prima persona da un missionario cattolico in Congo, provetto aviatore e prete poco convenzionale rispetto ai modelli del tempo, che si trova nel bagno di sangue di quegli anni ad adoperarsi, a rischio della propria vita, per salvare dal massacro la popolazione civile.
Per la generazione di chi scrive, nomi come Patrick Lumumba – l’unico dirigente politico democraticamente eletto nella Repubblica in quarant’anni, assassinato nel 1961 e amico di Che Guevara – Moisè Ciombè, lo scissionista del Katanga e Mobuto Sese Seko, il dittatore che resse il paese sino al 1997, furono a lungo familiari in quell’iniziazione alla politica internazionale che vedeva in altri continenti le figure di Martin Luther King, di Malcom X negli Stati Uniti , del Pandit Nehru in India, di Fidel Castro a Cuba, più tardi, di Salvador Allende in Cile e di altri il cui ricordo risuonava nelle canzoni colme di nostalgia degli Inti-Illimani, esuli in Italia dal 1973 al 1988.
Eravamo i baby boomers, la generazione “agiata” e ben nutrita della Guerra Fredda, divisa tra l’ammirazione per i fratelli Kennedy e il Papa Buono dell’ enciclica Pacem in terris, ma al tempo stesso preoccupati per l’ escalation in Vietnam, e quella per i tanti leaders di paesi che allora si chiamavano “non allineati” e del Terzo Mondo dove il colonialismo aveva lasciato il posto a tribalismi di ogni genere, senza tuttavia alleggerire la presa da parte dei grandi gruppi industriali sulle ingenti risorse naturali che ancora oggi, soprattutto in Africa, sono al tempo stesso la benedizione e la maledizione di milioni di persone, mai diventate cittadini e popolo. Il colonialismo europeo aveva infatti tracciato con una riga linee più o meno rette su territori assegnati spesso dopo l’esito di guerra lontanissime da quei continenti, spezzando le etnie omogenee e costringendone le parti separate a scontrarsi per la leadership nazionale. Ne avremmo visto in Ruanda il massimo orrore con il genocidio dei Tutsi ad opera degli Hutu nel 1994 – oltre cinquecentomila persone letteralmente trucidate in meno di un anno, secondo Human Right Watch mentre il mondo occidentale stava a guardare.
Insomma, siamo cresciuti tra la fame dei bambini del Congo per lenire la quale già durante la scuola elementare producevamo tenerissime collette ed in nome della quale accettavamo i cibi sgraditi che le mamme ci proponevano facendoci sentire colpevoli dei nostri capricci alimentari dinanzi a quelle tragedie, le faide tribali, nel 1964 la condanna del pacifista Nelson Mandela all’ergastolo da cui sarebbe uscito tra ali di folla soltanto nel 1990 e l’apartheid nel Sud Africa di Verster e di Botha, i resoconti di colpi di stato e di stragi che ogni sera ci venivano proposti dalla televisione in bianco e nero insieme alle immagini del Vietnam ed ai reportage di Oriana Fallaci
Poi vennero la deposizione del Negus Ailè Selassie in Etiopia nel 1974 e il regime filosovietico di Menghistu, reo di genocidi dimenicati, il dispotismo antropofago di Idi Amin Dada in Uganda dal 1971 al 1979, di cui sono state rivisitate le atrocità nel film l’Ultimo Re di Scozia del 2006 per la regia di Kevin Macdonald e le interpretazioni dell’attore statunitense Forrest Whitaker ( Amin) e dello scozzese James McAvoy, nella parte del giovane medico personale che solo alla fine si renderà conto del mostro che lo ha inizialmente affascinato.
E poi la Somalia nel 1994 con l’uccisione della giornalista catanese del TG3 Ilaria Alpi che indagava, insieme al cineoperatore triestino Miran Hrovatin, su inconfessabili traffici di armi con l’Italia; l’Eritrea con la trasformazione in uno dei luoghi più pericolosi del mondo dalle cui coste si tengono lontane imbarcazioni di ogni genere.
Un martirologio italiano infinito sullo sfondo di un Continente senza pace su cui il nuovo impero cinese ha ormai steso le mani ricolme di yuan e di quei vaccini che l’Unione Europea e l’Italia non riescono ancora ad ottenere per se stesse nella quantità pattuita nei contratti con i produttori ufficiali. Confidiamo ora al riguardo nell’autorevolezza internazionale di Mario Draghi.
Con l’economista liberal dell’ UNIDO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale il palermitano Daniele Settineri, fraterno amico scomparso prematuramente a cinquantasette anni nel 2011, erano costanti le conversazioni sui temi del mancato sviluppo post coloniale – talvolta raffrontato, mutatis mutandis, con il Mezzogiorno d’Italia – durante i suoi brevi rientri in Italia dal Burkina Faso, in quell’Africa francofona dove operava. In esse prevalevano le considerazioni più drammatiche circa le cause dell’endemica arretratezza del continente nero, i casi palesi di corruzione degli esponenti più alti tra gli amministratori centrali e locali talvolta formatisi nei paesi ex colonizzatori, con le conseguenti relazioni amicali non sempre cristalline, l’inadeguatezza e la rapacità di larga parte delle classi dirigenti, la scomparsa silenziosa dei pochi dissidenti: in una parola l’irredimibilità di larga parte dell’Africa e l’ipocrita doppiezza del resto del mondo al riguardo.
L’amarezza di Daniele non riusciva però a piegare il suo innato ottimismo e il convincimento dell’impegno internazionale da profondere, a tutti i costi, in quell’angolo di mondo in cui si scontrano da oltre un secolo interessi colossali e complicità inimmaginabili. Le sue lucide analisi, che tanto mi mancano, oggi sarebbero preziose per comprendere un mondo la cui voce senza filtri governativi è troppo spesso affidata soltanto a Padri Missionari cattolici e di altre confessioni, vittime frequenti di violenza e di inquietanti scomparse ad opera di mandanti occulti e di esecutori quasi sempre impossibili da individuare e perseguire, come temo accadrà anche nella tragica vicenda che oggi sta colpendo l’opinione pubblica italiana.
Riporto infine una riflessione di Daniele della cui valenza profetica a suo tempo, era la metà degli anni 80, non mi resi subito conto. La ricostruisco a memoria: «Vedi – mi disse – per ora all’Europa dell’Africa importano soltanto le ricchezze mineraria da sfruttare ad ogni costo sociale ed umano. Per tale ragione essa lascia che gli africani si divorino l’uno con l’altro, che vi scoppino epidemie di proporzioni bibliche, che vi regnino mostri dalle uniformi ridicole. Ma, quando l’Occidente si troverà sull’orlo del baratro per la questione ambientale a motivo della quale dovrà inevitabilmente bandire i combustibili fossili e andare decisamente sull’ eolico ed il solare o, per qualche caso, sarà colpita da epidemie di cui ha dimenticato le dimensioni devastanti, allora l’Africa sarà il continente più ambito del mondo e chi se ne assicurerà il controllo, farà pulizia di tutti i suoi problemi, renderà irrigui i deserti, bonificherà le paludi, troverà un accordo con il mondo islamico moderato e dominerà il mondo. E sai una cosa? – continuò – soltanto la Chiesa Cattolica lo ha capito da decenni e sta radicando, in modo lungimirante, la propria presenza attraverso la crescita di un clero già in forte incremento che educa la nuova classe dirigente. Prima o poi eleggerà un Pontefice nero, dando un forte stimolo a tutta l’Africa.»
Le profezie di Bill Gates, gli avvertimenti di David Quammen in Spillover del 2013 sullo sviluppo delle zoonosi e le crociate di Greta Thunberg a partire dal 2018 avrebbero fatto la propria comparsa soltanto molti anni dopo. Oggi il ragionamento di Daniele Settineri si avvia a diventare realtà.
Così Iacopo Scaramuzzi su La Stampa del 25 marzo scorso ha scritto: “Il numero dei seminaristi maggiori sembra consolidarsi su un trend di lenta e graduale contrazione: i candidati al sacerdozio nel mondo passano da 118.251 unità nel 2013 a 115.880 nel 2018, con una variazione di meno 2%. Il calo, con l’eccezione dell’Africa, interessa tutti i continenti con riduzioni di grande portata per Europa (meno 15,6%) e America (meno 9,4%). L’Africa, con una variazione positiva del 15,6%, si conferma l’area geografica con le maggiori potenzialità di copertura del fabbisogno dei servizi pastorali.”
Rileggendo alcuni mesi fa il romanzo di John Le Carrè del 2001 Il Giardiniere tenace da cui è stato tratto nel 2005 il film The Constant Gardener – La cospirazione, con Ralph Fiennes, incentrato sul ruolo ambiguo di alcuni Big Farma impegnati nella sperimentazione selvaggia di farmaci in Kenya, ho ritrovato molte di quelle considerazioni, anche se l’autore, padre indiscusso del genere spy story, le mimetizza in un intreccio narrativo formalmente di fantasia e che oggi tornano di grande attualità nel mercato selvaggio che si sta sviluppando, ormai è inutile negarlo, in merito alla produzione e alla distribuzione dei vaccini anti Covid in ogni parte del mondo.
L’ Africa è un mondo che presto ci riserverà sorprese di ogni genere per la dimensione colossale degli investimenti infrastrutturali che la Cina di Xi Jinping vi sta destinando, e non certo per un afflato umanitario. Quanti avessero ancora in mente le immagini romantiche evocate dall’opera di Karen Blixen del 1937 e da cui fu tratto nel 1985 il film La Mia Africa di Sydney Pollack, con Meryl Streep e Robert Redford che vinse ben sette premi Oscar o quelle più rudi dei racconti di caccia di Ernest Hemingway, considerino che quel mondo – oggi più simile a Cuore di tenebra di Joseph Conrad – sta transitando in modo molto doloroso verso una configurazione geo-politica e un mondo che non siamo ancora in grado di immaginare. Un’epoca nuova della cui necessità di una leadership inedita ho scritto su queste pagine esattamente un anno fa. Il “mal d’ Africa” quale cifra di un certo colonialismo nostalgico ieri e del fascino umanitario esercitato oggi su chi vi opera nelle organizzazioni non governative sta per lasciare ora il posto al Grande Gioco, per parafrasare il titolo del saggio di Peter Hopkirk ispirato a Rudyard Kipling e pubblicato da Adelphi nel 2010, ove è descritto il ruolo strategico che nel XIX e nel XX secolo ebbero i paesi asiatici posti tra la Russia e l’India. Di tale nuova dinamica geo-politica già in corso, la rivista Limes diretta da Lucio Caracciolo, si è costantemente occupata a partire dal numero ormai storico del dicembre 2015 intitolato Africa il nostro Futuro e di cui, a proposito del Congo, indico un articolo disponibile in rete .
D’altronde, la lunga avventura umana sembrerebbe iniziata, secondo gli archeologi, proprio nel cuore pietroso della Rift Valley etiopica, milioni di anni fa; insomma sarebbe un po’ come tornare a casa! Ogni esitazione da parte dell’Europa di oggi nel considerare quella immensa parte del mondo una prospettiva preziosa di sviluppo per nuove modalità di coesistenza pacifica e di rispetto dell’ambiente ancora in larga parte non contaminato, invece che soltanto un opaco affare di aiuti umanitari, se non della vendita di armi, potrebbe rischiare di arrivare tardi in quella che fu la culla dell’Umanità.
Forse, anche da un tale convincimento traevano origine per l’ambasciatore Luca Attanasio il lavoro generoso e l’amore per l’Africa che la morte ha interrotto.