Ormai è uno stereotipo: quando un politico vuole distrarre l’attenzione da un tema serio, attacca i Navigator. E di altri argomenti si finisce per non parlare mai. Eppure ce ne sarebbero. E tanti.
Come la vendita di armi e armamenti all’estero. Nelle scorse settimane, si è parlato della vendita di armi e armamenti all’Arabia Saudita da parte di aziende italiane. Ma in poco tempo, sulla questione è calato il solito velo mediatico. Eppure si tratta di una realtà complessa che avrebbe meritato attenzione. Il commercio delle armi è un settore che non conosce crisi. Neanche durante la pandemia. E spesso sono proprio in paesi “paladini della pace” ad alimentare le guerre in atto, con le proprie forniture e le proprie esportazioni. Paesi come Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Cina, Regno Unito, Spagna, Israele, Olanda. E l’Italia che, secondo i dati SIPRI, è tra i primi 10 fornitori al mondo di armi e armamenti.
Basterebbe leggere i report annuali che devono inviare alle NU i paesi che aderiscono all’ATT, il Trattato sul commercio delle armi (l’Italia vi ha aderito con voto unanime del Parlamento). In quello che riguarda l’Italia, di cose da dire ce ne sarebbero tante. La prima riguarda la cosiddetta clausola di riservatezza. Oggi l’Italia appare come uno dei paesi UE meno trasparenti in questo settore.
Un problema ben noto al Parlamento: nel 2020, Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa e di Rete Disarmo, ne parlò durante un’audizione informale alla Commissione Affari Esteri della Camera. “L’Italia è uno dei Paesi meno trasparenti dell’Unione europea in materia di esportazioni di armamenti” disse Beretta. “Non solo da quattro anni non comunica alle Nazioni Unite le informazioni richieste ma, per farlo, si avvale di una clausola del Trattato sul commercio di armamenti, senza averlo mai comunicato né motivato al Parlamento. Tale mancanza di informazioni non è attribuibile a problemi di natura tecnica, ma risponde a una precisa decisione assunta in sede politica che però non è chiaro da chi sia stata assunta”.
Poca chiarezza su cosa sta avvenendo e persino su chi abbia preso certe decisioni. Ma nessuno ne parla. Si preferisce parlare male dei “Navigator”. Chi non ricorda la vicenda dei “Marò” in India? Se ne parlò a lungo. Molto meno, invece, si parlò della vendita di armi da parte di aziende italiane proprio a quel paese. Un paese al quale l’Italia e le sue aziende, non avrebbero dovuto vendere nulla visto che è un paese in guerra. Blanda la giustificazione: si trattava non di armi ma di “altro”. Ma se così fosse, non ci sarebbe stato motivo di inserire la vendita nel famoso elenco presentato al Parlamento.
Ma non basta, l’Italia avrebbe venduto i propri “prodotti” non solo all’India ma anche al paese con cui è in guerra da oltre mezzo secolo: il Pakistan. Il tutto nell’indifferenza totale dei media e di tanti politici. Dimenticando che non si tratta di cose di poco conto: spesso le armi e gli armamenti venduti sono strumenti di morte (come quelli prodotti da una famosa azienda con sede in Sardegna).
A volte a produrre queste armi e armamenti sarebbero anche aziende a partecipazione statale italiana: nel 2019, il primo paese acquirente non sarebbe stato l’Arabia Saudita, ma l’Egitto. Proprio quello di cui si parla spesso per un fatto di cronaca (nera): il caso Regeni. o per il trattamento ingiusto riservato ad un altro giovane incarcerato nello stesso paese. Di questi casi i giornali e i media hanno parlato a squarcia gola (giustamente). Neanche un trafiletto, invece, è stato dedicato al fatto che l’Egitto ha comprato armi e armamenti da aziende italiane per centinaia di milioni di Euro (e con un trend crescente impressionante: nel 2018, erano solo 69 milioni di Euro). Ma la cosa più sorprendente è che questa cifra deriverebbe dalla vendita di ben 32 elicotteri Leonardo (ex Finmeccanica), la principale azienda produttrice di armi in Italia (dati Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace).
Un giro d’affari annuale, quello della vendita di armi e armamenti, a nove cifre: si stima che vada ben oltre i 5 miliardi di Euro, solo per l’Italia. Soldi che piovono nelle casse delle aziende italiane grazie alla vendita anche a paesi ai quali, in teoria (e per legge) non avrebbero dovuto venderle. Come Israele. Anche questo paese, da decenni in guerra (è sotto osservazione delle NU per alcuni presunti reati), è un “acquirente” al mercato delle armi e degli armamenti tricolori.
Giri d’affari miliardari che spesso viaggiano nell’ombra e dei quali nessuno osa parlare sui giornali. Molti giornali preferiscono non vedere cosa avviene davanti ai loro rotocalchi. O di non sapere nulla delle ispezioni dell’UAMA, l’Autorità nazionale facente capo al Ministero degli Esteri e preposta al controllo: sono passate da 6 nel 2016 a 20 nel 2019, ma le sanzioni emesse sono rimaste blande, intorno ai centomila euro, bruscolini davanti al giro d’affari a nove zeri. Neanche i richiami dell’ATT, l’ente che monitora anche la vendita all’estero di armi di piccolo calibro e leggere definite SALW (armi come pistole fucili o mitragliatori, per capirci) sono serviti a molto. Eppure, nella sua valutazione l’ATT ha bacchettato l’Italia dicendo che “ha nominato tutte le destinazioni di esportazione e le fonti di importazione per le SALW in allegato, rendendo difficile, nella maggior parte dei casi, determinare quali armi sono state trasferiti in quale paese”.
Inoltre, “L’Italia non ha fornito descrizioni o commenti che descrivano eventuali trasferimenti segnalati” e “ha escluso alcuni dati per motivi di “sensibilità commerciale/sicurezza nazionale”, ma non ha specificato dove o quante informazioni sono state trattenute”. EN-ATT_Country-Profiles_Italy.pdf (attmonitor.org) come dire che l’Italia non ha voluto dichiarare cosa ha venduto e a chi. Alimentando un mercato, quello degli strumenti di morte (perché questo sono armi e armamenti), che fa gola a molti. Un mercato controllato da pochi e spesso in modo spudorato: basti pensare che la prossima riunione biennale per parlare della vendita di SALW si svolgerà presso la sede UNODA di New York, ovvero nel paese che da decenni è il maggior produttore di armi e armamenti e di gran lunga il maggior esportatore. Un giro d’affari mondiale alimentato da guerre, missioni di pace e scontri tribali che non sembra conoscere la parola crisi: guerre più volte dichiarate finite, sono invece ancora attive e continuano a causare centinaia di migliaia di vittime civili.
Secondo i dati forniti dall’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra sarebbero quasi mezzo milione l’anno le vittime solo tra i civili. ANVCG: La storia delle vittime civili di guerra come “donazione di vita” Uomini, donne e bambini uccisi grazie alle armi prodotte e vendute da paesi in “pace”, come l’Italia. Strumenti di morte, grazie ai quali alcune aziende hanno continuato a fare affari d’oro anche durante la pandemia. E tutto questo nel silenzio di chi ha preferito parlare sempre e solo di Navigator…