La considerevole mole di articoli e di commenti che in questi giorni contribuiscono alla celebrazione della nuova ricorrenza del “Dantedì” fissata da quest’anno in poi dalla Presidenza del Consiglio nel 25 marzo, si concentra in larga parte sulla Commedia, anche a motivo della maggiore diffusione del testo che, a partire dalla scuola media, viene proposto agli studenti in forma via via più approfondita.
Meno si ricorda l’opera preparatoria che raccoglie sonetti e canzoni che il Poeta dedicò a Beatrice Portinari, sua musa ed amore platonico, oggi vicina alla condizione che soprattutto il mondo giovanile sta vivendo a motivo della pandemia e delle conseguenti minori occasioni di incontro a scuola e nei luoghi tradizionali di aggregazione.
La Vita Nuova, per la prima volta denominata in italiano e non alla maniera latina come era nella tradizione poetica, Nova, fu iniziata, come ebbe a testimoniare l’autore, quando Dante aveva diciotto anni e successivamente elaborata tra il 1292 ed il 1295.
Un amore giovanile dunque caratterizzato pertanto da turbamenti e profonde emozioni che i giovani di ogni epoca hanno conosciuto bene e che, mutando poco la natura umana, continueranno per millenni ancora a rappresentare la rinascita della vita e la perpetuazione della specie. E non sarà certo la cinica definizione di Arthur Schopenhauer (1788 -1860 fisiologicamente e neurologicamente corretta e relativa all’astuzia della natura, a far cambiare idea a quanti hanno vissuto la magia dell’innamoramento e di cui, tra i tantissimi, scrisse Francesco Alberoni, oggi ottantenne, in “Innamoramento e Amore” pubblicato da Garzanti nel 1979 e diventato un libro cult anche a motivo dell’inedito accostamento tra la dinamica dell’innamoramento di coppia e la nascita di nuovi soggetti politici a carattere movimentista.
Il confronto tra le due tesi può costituire un’utile indicazione.
“Ogni innamoramento, infatti, per quanto voglia mostrarsi etereo, ha la sua radice solo nell’istinto sessuale, anzi è in tutto e per tutto soltanto un impulso sessuale determinato, specializzato in modo prossimo e rigorosamente individualizzato. L’estasi incantevole, che coglie l’uomo alla vista di una donna di bellezza a lui conveniente e che gli fa immaginare l’unione con lei come il sommo bene, è proprio il senso della specie, che, riconoscendo chiaramente impresso in essa il suo stampo, vorrebbe con essa perpetuarlo.
L’uomo è dunque in ciò guidato realmente da un istinto, che tende al miglioramento della specie anche se si illude di cercare soltanto un accrescimento del proprio godimento. In effetti noi abbiamo qui un istruttivo chiarimento sull’intima essenza di ogni istinto, il quale quasi sempre, come qui, mette in moto l’individuo per il bene della specie
nella coscienza dell’individuo, il quale qui, animato dalla volontà della specie, serviva con ogni sacrificio ad un fine, che non era il suo proprio.” (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819)
Non meno spietatamente, così continua il filosofo in “Metafisica dell’amore sessuale: l’amore inganno della natura” contenuto nei Supplementi alla terza edizione dell’opera suddetta pubblicati nel 1859 “Si tratta di una passione tirannica e demoniaca, anzi metafisica, che nei gradi più alti della sua intensità è capace di travolgere tutto, anche la vita stessa di chi vi è irretito. E se ne capisce il perché se si pensa che dall’amore dipende la perpetuazione della specie. Ma una cosa di tanta importanza non poteva essere lasciata all’arbitrio degli individui e così la natura ci ha dato l’istinto sessuale, la cui forza e infallibilità ci inducono a fare quello che non faremmo mai con la mera riflessione razionale. Tale istinto crea delle illusioni, facendoci credere che l’amplesso con una determinata persona ci procurerà una gioia infinita; ma poi, post rem, scopriamo con stupore che così non è. Intanto la natura ha ottenuto il suo scopo, quello appunto della riproduzione. Ciò che le sta a cuore, infatti, è la vita della specie e non quella degli individui, che essa considera semplici strumenti o zimbelli. Ogni amore, per quanto etereo possa apparire, è radicato nell’istinto sessuale; e non c’è alcuna differenza essenziale tra il cervo in fregola che bramisce e il poeta innamorato che scioglie inni alla sua bella. Lo scopo è sempre lo stesso, comunque lo si persegua: perpetuare la specie. L’istinto sessuale, di cui la natura si serve per i suoi fini, ci guida come un fuoco fatuo e poi ci lascia negli stagni.”
Neppure Sigmund Freud, che del resto saccheggiò Schopenhauer molto più di quel che egli non volesse ammettere, disse cose così profonde sulla vera natura dell’amore con buona pace dei cioccolatini, degli Innamoratini del disegnatore e illustratore francese Raymond Peynet e dei lucchetti che costellano i ponti romantici di mezzo mondo, da Firenze a Verona, da Parigi a Praga.
Più appassionata la visione di Alberoni che così scrisse in un tempo che a noi, suoi contemporanei, appare attuale ma ai più giovani, forse, risuonerà come l’eco proveniente da un’altra era geologica:
“Per quanto riguarda il primo periodo dell’innamoramento, lo stato iniziale, quasi tutti tendono a parlare di colpo di fulmine, di attrazione improvvisa, di fascinazione, insomma di un legame fortissimo che si instaura subito e che se si ripresenta e viene ricambiato diventa un idillio continuo senza incertezze. I due innamorati non sfogliano nemmeno la margherita, “m’ama non m’ama”. Si buttano freneticamente nelle braccia l’uno dell’altro e passano da un’estasi sessuale ad un’altra. É l’amore a prima vista raccontato dalla mitologia popolare e rappresentato dal cinema.
Ma io non credo che tutto avvenga in modo così semplice. Nella fase che precede l’innamoramento noi siamo in preda ad una profonda inquietudine, cerchiamo di liberarci da qualcosa, cerchiamo qualcuno di cui non conosciamo nulla, abbiamo presagi. Poi ci colpisce qualcuno, a volte più di uno, ed ogni volta sentiamo una attrazione strana. Dei primi incontri ci dimentichiamo, ricordiamo solo l’ultimo e di solito dopo averlo rivisto, reincontrato. E se il processo di innamoramento procede diciamo che ci siamo innamorati di lui a prima vista.
Vi sono anche innamoramenti estremamente intensi in cui entrambi i protagonisti sono dubbiosi, tormentati perché hanno dei vincoli, dei problemi, delle paure dovute ad esperienze passate o a delle relazioni difficili da sciogliere. Per esempio sono entrambi sposati con figli e la loro unione produce drammi familiari; in altri casi incontrano difficoltà perché hanno culture, tradizioni politiche e religiose diverse, tutte forze che frenano dall’abbandonarsi all’innamoramento. Ed allora questo si fa strada attraverso un lungo processo di avvicinamento, tanto intellettuale che fisico, è l’elaborazione di una visione comune.” (Francesco Alberoni, op.cit.)
L’autore continua poi con l’accostamento all’innamoramento collettivo che spesso contraddistingue l’entusiastica e fulminea adesione, anche in età adulta, a movimenti politici o di opinione che infiammano le menti su svariati temi. Ne abbiamo visto esempi storici nel “maggio francese” del 1968, nei vari soggetti populisti “anti casta”, nel fenomeno globale del cambiamento climatico ispirato dalla giovanissima Greta Thunberg in Svezia e nel Pianeta dal 2018 in poi.
Gli elementi che manifestano ogni forma di innamoramento antico e moderno sono comunque connessi con la vicinanza, la prossimità, l’aggregazione, la fisicità e conseguentemente patiscono molto quando, come nei giorni che viviamo da oltre un anno, prevale la necessità dell’isolamento, del cosiddetto “distanziamento sociale” a cui i giovani di oggi oppongono l’utilizzo dei social che però ne rappresenta solo un parziale surrogato. Da qui, l’urgenza da tutti avvertita di pervenire presto alla pressoché totale immunizzazione mediante vaccinazione della popolazione con la conseguente ripresa, seppur con cautela, dei consueti riti di aggregazione specialmente giovanili e di ogni altra attività che comporti la libera circolazione delle persone nei centri urbani con le conseguenti ricadute attese anche dalle attività economiche vocate alla relazionalità.
Nell’attesa fiduciosa che questa esperienza di prova per l’intera umanità smarrita costituisca anche l’occasione di una profonda revisione esistenziale e degli equilibri del mondo di cui ho scritto un anno fa, la lezione dantesca appare ancora una volta attuale e vicina, oltre ogni distanza temporale e di costumi, all’attuale condizione di deprivazione sentimentale e sensoriale.
La Vita Nuova, raccolta di oltre quaranta testi manoscritti successivamente ordinati dall’autore consta di tre parti che corrispondono alla maturazione ed all’evoluzione del sentimento provato dal giovane innamorato fiorentino di seicento anni fa e che potremmo definire “dall’infatuazione alla sublimazione”
Una prima fase in cui Beatrice gli concede il saluto, fonte di beatitudine e salvezza, una seconda in cui ciò non gli è più concesso, cosa che genera in Dante una profonda sofferenza, una terza in cui Beatrice muore e il rapporto non è più tra il poeta e la donna amata, ma tra il poeta e l’anima della donna amata.
Come già ricordato, Dante narra di incontrare per la prima volta Beatrice quand’egli aveva appena nove anni e nove mesi e lei nove anni e tre mesi (il numero nove, evidente richiamo alla Trinità appare diverse volte nell’opera: rappresenta il miracolo) e qui inizia la “tirannia di Amore” che egli stesso indica come causa dei suoi comportamenti.
Rivedrà poi la sua “musa” all’età di diciotto anni (1283) e dopo aver sognato il dio Amore mentre tiene in braccio Beatrice che piangendo mangia il suo cuore, compone una lirica in cui chiede ai poeti la spiegazione di tale sogno allegorico. La risposta più puntuale, anche in vista degli sviluppi futuri, gli viene dal suo “primo amico” Guido Cavalcanti, il quale vede nel sogno un presagio di morte per la donna di Dante. Per non compromettere Beatrice, il poeta finge di corteggiare altre due donne dette dello “schermo” indicategli da Amore, e soprattutto dedica a loro i suoi componimenti. Beatrice, venuta a conoscenza delle “noie” arrecate dal Poeta a queste dame, non gli concede più il suo saluto salvifico.
A questo punto ha inizio la seconda parte del prosimetro in cui Dante si prefigge di lodare la sua donna. In questa parte spicca il noto sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”.
Morta Beatrice nel 1290, e conclusasi la seconda parte, dopo un periodo di disperazione, di cui non si forniscono numerosi dettagli, il poeta è attratto dallo sguardo di una “donna gentile”.
Ben presto Dante comprende che l’interesse per questa nuova donna va allontanato e soffocato, poiché solo attraverso l’amore per Beatrice potrà raggiungere Dio. Ad aiutarlo in questa riflessione è il passaggio in Firenze di alcuni pellegrini diretti a Roma, che simboleggia il viaggio spirituale intrapreso da ogni uomo verso la gloria dei cieli. Una visione gli mostra Beatrice beatificata e il poeta decide di non scrivere più di lei prima di esser in grado di parlarne più degnamente, ovvero di dirne “ciò che mai non fue detto d’alcuna”.
Si è di fronte ad una gamma intensissima di sentimenti che il pittore britannico Dante Gabriel Rossetti (1828-1882 ) – tra i fondatori del movimento pittorico preraffaellita insieme a William Holman Hunt, Ford Madox Brown e John Everett Millais – perdutamente innamorato della moglie Elizabeth Siddal (Lizzie) morta durante un lungo periodo di indigenza vissuto insieme, seppe interpretare in molti dipinti che lo resero famoso e che restano tra i più iconici delle raffigurazioni ispirate alla vita amorosa di Dante la cui influenza, dovuta soprattutto alla Vita Nuova, fu per l’artista determinante. Consiglio ai lettori de Lo Spessore una sua delicata biografia “Dante Gabriel Rossetti. Vita, arte, poesia” curata da Edvige Schulte e pubblicata da Liguori nel 1986.
L’ultimo capitolo, in cui questa necessità di sublimare l’amata è esposta, viene considerato una prefigurazione della Commedia. Beatrice è una figura angelica, circonfusa di un’aura di sacralità, che dalla sua prima apparizione avvince Dante e lo purifica, elevandone i sentimenti, riuscendo a riportarlo allo stesso livello di salute spirituale anche dopo morta, mantenendovelo per sempre: la sua funzione supera perciò la breve esperienza d’amore caratteristica degli altri poeti dello stilnovo, per diventare fondamento di eterna salvezza. L’opera magna di Dante Alighieri, la Commedia che successivamente Giovanni Boccaccio definirà “divina” e di cui ho scritto altrove ieri, sta per avere inizio e il sipario presto si aprirà sul massimo compendio della molteplice natura degli esseri umani e sull’empireo degli spiriti elevati che culminerà nella visione, non rivelata perché impossibile a dirsi, di Dio.
Gli oltre quattordicimila versi sono ancora una fonte inesauribile di ricerca filologica ma anche esoterica che hanno impegnato i primi settecento anni e non mancheranno di farlo per i successivi purchè non si dimentichi che la costanza matematica con cui ogni Cantica si conclude con la medesima parola: “E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV) “Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle (Purgatorio XXXIII) “A l’alta fantasia qui mancò possa;ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. (Paradiso XXXIII).
La ricorrenza del termine prefigura non solo il sentimento di liberazione cui ogni essere aspira ma anche quel valore di orientamento ben noto ai viaggiatori di ogni parte del mondo quando ancora la bussola, il cui uso venne introdotto proprio nel corso della vita di Dante, era nota a pochi, né tanto meno dei satelliti che oggi sono in grado di vedere ogni cosa, compresa, purtroppo, anche l’espressione dei sentimenti più profondi ed intimi, se incautamente affidati a strumenti artificiali, per altri versi di grande utilità. L’Amore, dunque, come astro luminoso che accompagni verso la meta, come già la Cometa e le costellazioni dello Zodiaco, e che per Dante ha, attraverso la personificazione in Beatrice, il ruolo di guidare l’Umanità navigante nella notte lungo l’unica rotta possibile “per seguir virtute e canoscenza”.
Amore e ‘l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l’un sanza l’altro osa
com’alma razional sanza ragione.
Falli natura quand’è amorosa,
Amor per sire e ‘l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a li occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’Amore.
E simil face in donna omo valente.
“Amore e ‘l cor gentil sono una cosa” (da La Vita Nuova)