The Academy Award, conosciuto anche come Premio Oscar o semplicemente Oscar, è il premio cinematografico più prestigioso e antico al mondo; venne assegnato per la prima volta il 16 maggio 1929, tre anni prima che il Festival di Venezia cominciasse ad assegnare i propri premi.
La Notte degli Oscar è una cerimonia molto elaborata che dal 2004 si tiene generalmente l’ultima domenica di febbraio o la prima di marzo. Fino ad allora, generalmente avveniva il primo lunedì di primavera, nella quale gli invitati fanno sfoggio delle creazioni dei più celebri stilisti, e viene trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo; con due mesi di ritardo a causa delle restrizioni per la pandemia, nel Dolby Theatre di Los Angeles è stata allestita una passerella inedita: le mascherine non sono state esibite davanti alle telecamere ma i movimenti hanno dovuto seguire rigidi percorsi per rispettare le distanze. Nessun presentatore fisso, ma una serie di star si sono alternate per premiare i colleghi, da Brad Pitt a Harrison Ford, da Laura Dern a Renée Zellweger, fino a Joaquin Phoenix.
Le più significative tra le statuette che Margaret Herrick, impiegata all’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, vedendo il trofeo sopra un tavolo, esclamò: «Assomiglia proprio a mio zio Oscar!» sono andate al film “Nomadland” a Chloé Zhao, quale miglior regista e a Frances McDormand, migliore attrice protagonista. Ad Anthony Hopkins, inaspettatamente, il premio come miglior attore protagonista per “The Father”. L’Italia resta a mani vuote nonostante la nomination per miglior trucco e migliori costumi per “Pinocchio” e quella per la miglior canzone a Laura Pausini con “Io sì/Seen”, il brano inciso per “La vita davanti a sé”.
Tra le tante opere che cercano di interpretare lo spirito del tempo, “Nomadland” tratto dall’omonimo romanzo di Jessica Bruder del 2017, riassume i principali temi esistenziali che caratterizzano il presente: la radicale trasformazione dell’economia e il conseguentemente impoverimento della società, la riflessione sui generi, il vagabondaggio solitario alla ricerca di una nuova solidarietà tra simili.
Si tratta di elementi già presenti nella letteratura e nella cinematografia americana nella cui memoria profonda risiedono i ricordi della Grande Depressione seguita alla crisi del 1929 e ancora prima gli orizzonti sconfinati verso i quali si dirigevano i pionieri in cerca di miglior fortuna o, in chiave ucronica, l’epopea dei superstiti di un mondo scomparso per cause non meglio definite evocata in tempi recenti da Cormac McCarty nel romanzo post apocalittico “The Road” del 2006.
Ogni giorno in America, il Paese più ricco del mondo, sempre più persone si trovano a dover scegliere tra pagare l’affitto e mettere il cibo in tavola. Di fronte a questo dilemma impossibile, molti decidono di abbandonare la vita sedentaria per mettersi in viaggio. In un mondo in cui basta un ricovero in ospedale al momento sbagliato per mandare in fumo i risparmi di una vita, in cui la previdenza sociale è praticamente inesistente e il peso dei debiti spinge molti alla disperazione, donne e uomini in età da pensione hanno iniziato a migrare da un lato all’altro del Paese attraverso i mezzi di trasporto più vari, tra un lavoro precario e l’altro. Una prospettiva su cui anche l’Europa, illusa di tornare indenne ai tempi ed ai privilegi che hanno preceduto la pandemia, dovrebbe riflettere.
Tra i nuovi nomadi c’è la Linda May del romanzo: una nonna di 64 anni, capelli grigi, ex alcolista, che vive viaggiando su un furgone “28 piedi”. Nel film è Fern, interpretata dall’attrice Frances McDormand.
‘Nomadland’, nato dall’inchiesta “Dopo la pensione” svolta dalla Bruder, accompagna in un viaggio attraverso la vita, i sogni e le speranze di questi nomadi del terzo millennio, per scoprire che, squarciato il velo illusorio del Sogno Americano, al di là è forse possibile scorgere una nuova realtà, più umana, più solidale, più bella. “Ho trovato la mia gente: un gruppo raffazzonato di disadattati che mi hanno circondato con amore e accettazione. Per disadattati non intendo perdenti e sbandati. Erano intelligenti, compassionevoli, laboriosi americani a cui è caduta la benda dagli occhi. Dopo una vita a rincorrere il Sogno Americano, sono arrivati alla conclusione che non era altro che un gigantesco imbroglio.”
La protagonista del film ribalta lo stereotipo dell’eroe maschile di storie di fuga all’inseguimento delle proprie ambizioni, lasciando la propria donna ad attenderne il non sempre probabile ritorno. “Gli uomini se ne vanno quando il loro coraggio viene messo alla prova. Di noi ciò che viene messo alla prova è la pazienza, il saper vivere senza di loro.” Così Karen Blixen nel monologo interiore interpretato poi da Meryl Streep in “La mia Africa” di Sydney Pollack del 1985, che l’anno successivo fece incetta di statuette.
In “Nomadland” l’elemento originale del romanzo e del film è la donna ultrasessantenne, in precarie condizioni economiche e vedova, che va alla ricerca di chi come lei vive la lunga stagione del declino della giovinezza, dell’amore, della socialità.
Un’eroina non convenzionale che, senza pretendere di esserlo, interpreta uno stadio della condizione femminile poco indagato ma largamente diffuso, vista anche la maggiore aspettativa di vita, concentrati come siamo stati finora solo su donne giovani, donne in carriera, donne ostacolate dalla predominanza maschile, donne vittima di compagni violenti. A distanza di trent’anni dall’epilogo amaro di “Thelma e Luise” del 1991, con la regia di Ridley Scott, la rivincita di genere va ora all’assalto del mondo nuovo che si sta preparando.
Nel medesimo meraviglioso scenario di molti altri road movie, Chloé Zhao mette una donna anziana in viaggio, tra lavanderie a gettoni, abbonamenti in palestra per fare la doccia ed i mille espedienti dei nomadi, verso mete che lei non intende scegliere ma che pretende di vivere con un’intensità che non mancherà di parlare al cuore di una società orientata a scartare tutto ciò che non sia giovane, bello, desiderabile.
D’altronde, per chi l’ha veramente percorsa e vissuta, la strada non è forse l’amante tra le cui braccia aspiriamo di tornare, alla ricerca di un impossibile quanto necessario nuovo cominciamento?