Verso la fine dell’Ottocento la situazione in Medio Oriente è questa: c’è l’Impero Ottomano, una vasta entità sovrastatale che garantisce una certa autonomia ai vari popoli sotto il proprio dominio (compresi quelli della futura Palestina); in Europa cominciano ad esserci i primi segni del sionismo, il movimento nazionalista ebraico, che aspira ad una terra per tutti gli ebrei sparsi nel mondo e che, dopo diverse proposte, la identifica nella Palestina. Nel 1882 c’è la prima Aliyah, l’ondata di immigrazione con cui tra i 25.000 e i 35.000 ebrei si stabiliscono in Palestina. Non viene considerato che c’è già un popolo, quello arabo, che abita quelle terre. Alcuni sionisti giustificheranno la loro venuta con la volontà divina. Siamo agli albori della questione palestinese.
Nel 1917 il Ministro degli esteri inglese Arthur Balfour pubblica l’omonima Dichiarazione, che riconosce agli ebrei il diritto di formazione di “un focolare nazionale” per il loro popolo in Palestina, legittimando qualcosa che in realtà stava già avvenendo con le aliyah. Di fatto il territorio in quegli anni è nelle sfere di influenza della Gran Bretagna, nonostante dovesse essere governato da un mandato internazionale.
Ed è in quegli anni, dal 1920 al 1948, che la questione palestinese inizia ad emergere: da una parte gli immigrati ebrei (che arriveranno a 360.000 unità negli anni ‘30) dall’altra aumentano le ostilità fra le due popolazioni, data soprattutto dal fatto che gli ebrei immigrati, favoriti dalla Gran Bretagna, si erano impadroniti di terre, industrie e lavoro. Nel 1936, però, c’è la Grande Rivolta Araba, che dura quattro anni e porterà ad un ridimensionamento dell’appoggio della Gran Bretagna ai progetti dei sionisti, che in quegli anni si avvalevano anche di organizzazioni militari (Haganah) e paramilitari (Irgun) per portare avanti il loro progetto nazionalista.
Nel 1947 la questione palestinese è effettivamente un problema internazionale: le Nazioni Unite approvano un piano di partizione in due Stati, nonostante si parli di 1,2 milioni di arabi e 600.000 ebrei, con Gerusalemme proclamata città internazionale. Questo piano viene accettato dal movimento sionista e rifiutato dai palestinesi. Inizia l’eccidio: le forze paramilitari e sioniste scacciano i palestinesi dalle loro terre e massacrano chi si rifiuta di farlo: su questi territori viene proclamato lo Stato d’Israele nel maggio 1948, ricordato dal popolo palestinese come Nakba (catastrofe).
Nel frattempo centinaia di profughi palestinesi si riversano nei territori circostanti e inizia una guerra con Israele da un lato e la Lega Araba (Siria, Egitto, Libano, Arabia Saudita, Iraq e Transgiordania) dall’altro. Vincerà Israele un anno dopo, guadagnando nuove terre e prendendosi il 78% della Palestina.
La tensione cresce e nei territori palestinesi c’è una forte tensione verso la liberazione nazionale. Nel 1964 nasce l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) con l’obiettivo di liberare la Palestina con la lotta armata. Tre anni dopo esplode un nuovo conflitto: la Guerra dei sei giorni, che vede contrapposti Israele da un lato ed Egitto, Siria e Giordania dall’altro. In sei giorni Israele vince e occupa militarmente la Cisgiordania, Gerusalemme est, la Striscia di Gaza, il Golan siriano e il Sinai egiziano. È questo un momento fondamentale della storia della questione palestinese: quell’occupazione, infatti, dura ancora oggi in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est.
Nel 1973 scoppia la Guerra dello Yom Kippur: una coalizione guidata da Egitto e Siria attacca Israele durante la festività ebraica dell’Espiazione, mettendolo per la prima volta in difficoltà. La guerra si fermerà grazie ad un cessate il fuoco negoziato dalle Nazioni Unite. La situazione dei palestinesi nei territori occupati, però, rimane la stessa, mentre l’OLP viene dichiarata rappresentante del popolo palestinese nel 1974.
Anche gli anni 80 sono segnati dalla guerra: il Ministro della difesa Ariel Sharon invade il sud del Libano nel giugno 1982, scontrandosi anche con l’esercito siriano, hezbollah e unità armate dell’OLP, che aveva la propria sede politica in Libano. Tra il 16 e il 18 settembre 1982 c’è il massacro di Sabra e Shatila, in cui 3.500 profughi palestinesi vengono uccisi da milizie libanesi con la complicità dell’esercito israeliano.
Nel 1987, dopo l’uccisione di quattro palestinesi a Gaza, scoppia la Prima Intifada: una sollevazione di massa del popolo palestinese, fatta di manifestazioni, barricate, scontri, boicottaggi, autogestione e rifiuto di pagare le tasse. Pochi mesi dopo viene fondato Hamas.
La prima Intifada si conclude nel 1993 con gli Accordi di Oslo, firmati da Arafat e Rabin (primo ministro israeliano): stabiliscono il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e da alcune zone della Cisgiordania; la divisione della Cisgiordania in tre aree (di cui il 63% controllato militarmente da Israele); la creazione, entro cinque anni, di uno Stato palestinese. Che di fatto non avverrà.
Nel 1995, infatti, Rabin viene ucciso dal nazionalista israeliano Yigar Amin, la costruzione delle colonie ebraiche in Cisgiordania riprende in modo massiccio e il processo di pace è compromesso. Nel 2000 scoppia la Seconda Intifada a Gerusalemme, che conta una presenza più forte dei gruppi armati palestinesi. Israele invade numerose città della Cisgiordania, le pone sotto assedio e inizia la costruzione di un muro fra Israele e Cisgiordania che però va al di là dei territori che gli spettano. L’Intifada viene considerata conclusa nel 2005, ma in realtà permane un clima di tensione.
Nel 2005 il premier Sharon ritira i coloni israeliani dalla Striscia di Gaza, lasciandola completamente ai palestinesi. Negli anni a seguire Hamas assumerà il controllo della Striscia di Gaza, mentre la Cisgiordania rimane sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Israele reagisce a questo stato di cose imponendo un blocco totale della Striscia e causando una forte crisi umanitaria al suo interno; nel 2008 la attacca con l’operazione “Piombo Fuso” e nel 2014 con l’operazione “Margine protettivo”. La situazione della Striscia di Gaza peggiora, mentre nei territori occupati della Cisgiordania nulla cambia e la vita dei palestinesi sembra incanalarsi nella “normalità” dell’occupazione.
Il 6 dicembre 2017 Trump riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e nel marzo 2018 annuncia il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv alla città santa. Organizzazioni e comitati nella Striscia di Gaza annunciano la “Grande marcia del ritorno” manifestazione popolare, che costerà la vita a 254 palestinesi e provocherà 25.500 feriti, repressi duramente dalle forze militari israeliane.
Il 14 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, viene inaugurata da Donald Trump la sede diplomatica USA a Gerusalemme e il 15 settembre 2020 presso la South Lawn della Casa Bianca a Washington vengono sottoscritti gli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti.
L’autorità palestinese – presieduta dal 2005 da Abū Māzen, il successore di Yasser Arafat – proclama ancora un governo simbolico nei territori occupati, ma è ormai impopolare nel West Bank e detestata a Gaza dai miliziani di Hamas. Colti di sorpresa dai “Patti di Abramo” i palestinesi hanno visto come d’incanto rompersi il sogno delle “Due Nazioni” gli accordi invano sanciti dalle Nazioni Unite per il ripristino dei confini pre 1967 e il legame che li univa al mondo arabo.
Molti avevano dunque sperato che l’amministrazione del neopresidente democratico Joe Biden potesse azzerare i giochi, ignorando i Patti di Abramo. Ma Biden è uomo pragmatico e non intende ribaltare il suo piano sociale ed economico anti Covid negli Usa per effimere dottrine di politica estera. È rientrato negli accordi sul Clima di Parigi e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, abbandonati da Trump, ma ritiene che i Patti di Abramo siano acquisiti e vadano integrati al più con successivi negoziati, capaci di includere i dimenticati palestinesi.
Come ha scritto Fiamma Nirenstein a gennaio scorso su Il Giornale.it: “ I Patti di Abramo hanno rotto lo schema: quattro Paesi musulmani hanno già firmato la pace, e ora essa è affidata alle cure di Biden. Richiamare i palestinesi nel ruolo di giudici e di interlocutori, richiederebbe da Abu Mazen un abbandono dell’estremismo e del terrorismo che per ora non è all’orizzonte. Il gioco è vasto, se gli Usa non lo giocano come si deve il Medio Oriente può di nuovo diventare una pentola ribollente da cui la gente fugge impaurita verso l’Europa, come ha fatto dalla Siria e dalla Libia. Altrimenti, i palestinesi possono diventar parte della nuova pace.”
Intanto, dopo ben quattro consultazioni elettorali tra il 2020 e il 2021, che non sono riuscite ad esprimere una netta maggioranza a favore del Likud, il partito nazionalista e di destra di Benjamin Netanyahu che governa dal 2009, il 5 maggio si stava per assegnare la guida del governo al leader moderato Yair Lapid che aveva ricevuto l’indicazione di cinquantasei parlamentari sui cento della Knesset. Al suo partito, lo Yesh Atid, laico e centrista, si sono aggiunti Nuova Speranza e le fazioni Hadash e Ta’al della Lista Comune, al punto da indurre il presidente Reuven Rivlin di incaricarlo di formare un governo.
Nel frattempo, con una coincidenza che non può non balzare agli occhi di tutti, il conflitto è esploso a seguito delle manifestazioni di militanti israeliani arrivati dalle colonie del West Bank nelle zone palestinesi di Gerusalemme, con risse, vandalismi, slogan “Morte agli arabi”. Dopo che la polizia israeliana aveva ferito centinaia di palestinesi, che protestavano per gli sfratti nel quartiere della moschea di al-Aqsa, area sacra sia a musulmani che ebrei, Hamas, d’intesa con gruppi jihadisti, ha bombardato con una cinquantina di razzi, colpendo dentro il territorio d’ Israele come non accadeva da tempo.
Una mossa che certo sarà piaciuta al regime iraniano di Hassan Rouhani, da sempre nemico giurato di Israele, che in merito agli Accordi di Abramo aveva dichiarato: “La stupidità strategica di Abu Dhabi e Tel Aviv indubbiamente rafforzerà l’asse di resistenza nella regione. Il popolo oppresso della Palestina e tutte le nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione delle relazioni con l’occupante e il regime criminale di Israele”.
Il comando militare ha ordinato una rappresaglia aerea finalizzata a colpire Hamas e mentre questo articolo viene scritto, finora dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati più di mille razzi verso i territori israeliani, per lo più intercettati dal sistema di difesa antimissilistico Iron Dome; ad oggi sono stati uccisi 6 civili israeliani tra cui un bambino di 5 anni, e un soldato. Nei bombardamenti israeliani sulla Striscia, invece, secondo le stime delle autorità palestinesi sono stati uccise finora 67 persone, fra cui 16 bambini l bombardamenti hanno investito anche un oleodotto, provocando un vasto incendio In diverse città israeliane si stanno susseguendo esplosioni e sirene d’allarme e tutti gli atterraggi all’aeroporto “Ben Gurion” sono stati annullati. Scontri tra civili si registrano anche in villaggi dove finora la convivenza era stata pacifica.
Mentre sembra essere iniziata la Terza Intifada, blanda è stata finora la reazione della comunità internazionale e l’invio di un mediatore da parte di Joe Biden appare più un atto rituale che di sostanza, al pari dell’invito rivolto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sospendere le ostilità. Più incisiva è stata la dichiarazione della Santa sede che ha sempre sostenuto: “il diritto dello Stato d’Israele a vivere in pace e sicurezza entro i confini riconosciutigli dalla comunità internazionale, ma lo stesso diritto appartiene al popolo palestinese e deve essere riconosciuto, rispettato e attuato.
Fin qui la storia e la cronaca di un conflitto che ha attraversato il XX secolo, si protende ormai da oltre vent’anni anche nel successivo e per la risoluzione del quale, atteso il crescente disinteresse dell’Occidente, non resta che confidare su profondi mutamenti politici interni in chiave moderata che in entrambi i campi dovranno presto prendere il posto di pericolosi ed opposti radicalismi che sappiano lasciarsi alle spalle il passato per costruire insieme quel futuro di pacifica coesistenza tra due popoli, parimenti vittime della Storia, che oggi appare ancora lontano.
Lo scrittore David Grossman oggi quasi settantenne è sempre stato un attivista e sostenitore della sinistra israeliana, in particolare del Partito Laburista, dai tempi di Yitzhak Rabin, ed è un critico della politica governativa nei confronti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Queste posizioni gli attirano costantemente le critiche e le ostilità della Destra.
Come gran parte degli israeliani, Grossman ha sostenuto lealmente il proprio paese durante la guerra israelo-libanese del 2006, condotta contro le milizie del partito islamico Hezbollah, ma il 10 agosto 2006, insieme ad Amos Oz e ad Abraham Yehoshua, aveva parlato durante una conferenza stampa chiedendo al governo di trovare un accordo per un cessate il fuoco come base per negoziati che portassero a una soluzione concordata, definendo ulteriori azioni militari come “pericolose e controproducenti”. Due giorni dopo perse il figlio Uri rimasto ucciso durante un’operazione militare che si svolgeva in quel contesto; il suo impegno in favore della pace e del dialogo con arabi e musulmani è di conseguenza aumentato durante gli anni recenti.
Grossman è noto in tutto il mondo quale autore di opere di narrativa famose quali “il Duello”, “Vedi alla voce:amore”, “Qualcuno con cui correre” e “A un cerbiatto somiglia il mio amore” tradotto in Italia nel 2008 e pubblicato da Mondadori.
Nel 2003, aveva scritto un saggio dal titolo “La guerra che non si può vincere. Cronache dal conflitto tra israeliani e palestinesi”, edito in Italia da Mondadori, in cui raccontava la tragedia di due popoli ormai abituati a vivere all’ombra della morte, pronti ad accogliere in ogni momento la notizia di un attentato, della perdita dei propri cari, dello scoppio di una nuova guerra: uno stato di conflitto così profondo e radicato nella vita quotidiana che nessuno sembra più in grado di uscire dalla terribile logica della vendetta. Perché la pace invocata da Grossman non è solo il rifiuto di ogni forma di ricorso alla forza e alla violenza: è l’unica conclusione possibile di una guerra che nessuno può vincere e per porre fine alla quale “ “Israeliani e palestinesi non hanno bisogno di erigere un muro che li separi: hanno bisogno di abbattere il muro che li divide.”
Un sentimento condiviso con il poeta palestinese Mahmoud Darwis: “Questa terra è mia con le sue molteplici culture, cananea, ebraica, greca, romana, persiana, araba, ottomana, inglese, francese. Voglio viverle tutte. E’ un mio diritto identificarmi con tutte le voci che sono risuonate su questa terra. Perché qui io non sono né un intruso né un passante.”
Sarebbe ora che qualcuno li stesse ad ascoltare, prima che ogni cosa, compresa la speranza, venga definitivamente consumata.