I Musei Civici di Reggio Emilia e il Museo di Storia della Psichiatria commissionano la composizione di un album musicale strumentale all’artista trevigiano che risponde alle nostre domande
Nel panorama artistico di rilievo della musica contemporanea italiana spiccano artisti in grado di comporre musica che merita attenzione perché traccia un solco profondo e una distanza abissale dal concetto di musica di semplice intrattenimento o etichettata con aggettivi ripugnanti come “easy” o peggio “friendly”.
Musica semplice e fruibile costruita ad hoc come un prodotto commerciale di rapido consumo per il volgo nazional popolare in grado di gustare questo tipo di produzione solo se farcita di semplici note ed accordi che non richiedono un orecchio particolarmente aperto e adatto a sonorità nuove, sperimentali e profonde.
Certi autori invece orbitano in universi di altro spessore; sono proprio quelli che a volte ci soffermiamo a ritenere talentuosi ma il più delle volte sono in grado di decantare e musicare emozioni e introspezione con una tecnica che va oltre il talento stesso oramai relegato a “requisito minimo sindacale”. Appare ancora più difficile riuscire a comporre musiche che raccontano storie, spesso truci e dannatamente tristi, dove l’immedesimazione psicologica e fisica diventa fattore indispensabile per la creazione di un progetto musicale credibile e concreto.
I Musei Civici di Reggio Emilia e il Museo di Storia della Psichiatria recentemente hanno commissionato la composizione di un album musicale strumentale all’artista trevigiano Nicola Manzan noto al pubblico per il progetto musicale di successo Bologna Violenta.
L’artista ha esaminato le cartelle cliniche di alcuni pazienti e composto 8 brani scrivendo una personale interpretazione musicale delle terribili storie e il tremendo tormento mentale di 8 pazienti ricoverati all’ospedale psichiatrico San Lazzaro tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Nei brani dell’album dal titolo “La città del disordine – storie di vita dal manicomio di San Lazzaro”, si ascolta una musica a tratti soave e piacevolmente pervasa da un’apparente dolcezza dal retrogusto quasi surreale e spesso interrotta repentinamente da improvvisi “sbalzi di umore”, suoni che improvvisamente deragliano verso picchi di eccentricità estreme come purtroppo avviene nelle patologie legate a quelle instabilità e mancanza di equilibrio mentale coerente e permanente.
L’album rappresenta l’arte come una sorta di “transustanziazione inconscia” dove vige il passaggio dal continuo tormento ad una musica dolce, grave e ridondante egregiamente suonati tramite l’uso sapiente del violino e da molteplici melodie ad incastro. Storie di quotidiano dolore per un manicomio dove il malessere non prevede alcuna speranza di guarigione, dove è il malessere stesso che nella sua totale inspiegabilità non ha forma o direzione. Nicola Manzan trova la sua essenza artistica con intrecci sonori dove i suoni seguono percorsi mentali a volte sereni, a volte rabbiosi come se il tempo per questi sfortunati protagonisti rappresentasse una infame costrizione a condurre un torbido cammino dentro un tunnel freddo e senza luce per tutta la vita.
Prima di scambiare due parole con l’artista è bene tracciarne un breve ma esaustivo profilo.
Trevigiano di origine, Nicola Manzan classe 1976 sceglie di studiare il violino diplomandosi e divenendo polistrumentista. Vive e suona in una Italia stretta da anni nella morsa del terrorismo rosso e nero alle prese con una malsana e violenta follia giovanile intenta a sovvertire l’apparente stabilità politica del Paese di quegli anni difficili. La sua musica infatti si allinea in modo crudo e forte con episodi di cronaca nera omaggiando anche il cinema poliziesco italiano che in quegli anni imperversava. Nel 2006 crea un progetto musicale one man band dal nome Bologna Violenta che si rivelerà fortunato per il successo di alcuni album tra cui spicca in particolar modo “Uno Bianca”.
L’INTERVISTA
Si aspettava di ricevere questa commissione così importante e di prestigio?
Non me lo aspettavo di certo. Avevo già collaborato l’anno scorso con i Musei Civici di Reggio Emilia quando per la Museum Week mi avevano chiesto di realizzare un videoclip ispirato ad una sezione dei musei stessi. Ma pensavo che la cosa si fermasse lì. Invece il mio lavoro è piaciuto e sono stato poi contattato a settembre per realizzare questo disco all’interno di un progetto di “inclusione” tra museo e artisti.
Ci parli di come ha progettato l’album e le ricerche documentaristiche messe in atto negli archivi dell’ospedale psichiatrico San Lazzaro per comporre gli 8 brani;
Il Museo di Storia della Psichiatria è legato a doppio filo con la Biblioteca Scientifica “Carlo Livi” in cui sono conservate più di 100.000 cartelle cliniche, 1.500 foto di pazienti e molte loro opere o manufatti. La responsabile della biblioteca ha selezionato una ventina di cartelle cliniche e me le ha fornite. Ovviamente se avessi dovuto fare una ricerca all’interno di un numero così ingente di documenti, probabilmente ora sarei ancora lì a scegliere quali mettere in musica. Una volta lette le cartelle cliniche, ne ho scelte otto, tra quelle che secondo me rappresentavano un panorama abbastanza vario dei pazienti che erano stati ricoverati, o che avevano comunque delle storie che mi ispiravano particolarmente e che mi sembravano le più adatte allo scopo. A quel punto mi sono concentrato sulle peculiarità di ciascun paziente, sia dal punto di vista caratteriale, che da quello delle vicende che lo avevano visto coinvolto prima e dopo il ricovero. Ho creato dei temi e delle armonie al piano elettrico che poi ho messo insieme e arrangiato con vari strumenti per creare per ogni personaggio un brano che raccontasse la sua vita.
Come le definisce le patologie legate alla instabilità psichiatrica, che sensazioni profonde le danno?
Non essendo un esperto di psichiatria faccio fatica a dare una definizione precisa delle diverse patologie. Personalmente, le malattie mentali mi sembrano tutto sommato più subdole delle altre, perché coinvolgono solo la mente e spesso non vengono riconosciute come tali. Per questo motivo, non sempre si riesce a capire quanto sia grave un problema o come intervenire per risolverlo. Leggendo queste cartelle cliniche sono rimasto molto colpito nel vedere quanti passi avanti siano stati fatti in questo ambito, soprattutto perché io ho trattato casi che andavano dal 1850 fino all’inizio del 1900, periodo in cui la psichiatria moderna era agli albori. Di sicuro sono storie tristi, che a volte però strappano qualche sorriso per alcune dinamiche in cui i pazienti sapevano di essere malati, ma se la vivevano come una cosa naturale e agivano di conseguenza (penso ad esempio a Cristina M. che era stata ricoverata al San Lazzaro per cinque volte e ogni qualvolta rientrava in manicomio si comportava da “veterana” e diceva cose del tipo “sono tornata dalle mie amiche”).
La scelta del violino come strumento dei suoi studi e di formazione l’ha maturata per l’assoluta bellezza dello strumento in grado di equiparare dolcezza e stridore come elemento fondamentale degli stati d’animo dei pazienti?
La scelta del violino è stata abbastanza casuale. A cinque anni avevo iniziato a suonare il pianoforte e le tastiere, con un maestro che veniva a farmi lezione a casa. A otto anni, per una fortunata serie di eventi, ho iniziato a studiare il violino, strumento che mi piaceva molto e che mi affascinava da sempre. Negli anni ho capito quanto sia uno strumento versatile con cui posso creare dolci melodie, ma anche suoni fastidiosi come pochi altri strumenti riescono a fare. Nel disco c’è una vera e propria orchestra da camera (tutta ovviamente registrata da me) con violini, viole e violoncelli, ma il violino non è lo strumento protagonista, come lo è invece il piano elettrico. Dal vivo le cose sono diverse, perché è proprio il violino lo strumento solista e i brani sono stati in parte riarrangiati per rendere il tutto funzionale.
Come colloca questo progetto oggi, quali sono le motivazioni per cui, un album come il suo, appare come un piccolo tesoro da preservare e diffondere in tempi di pandemia?
Non credo di essere la persona adatta per dire che questo disco sia un piccolo tesoro da preservare. Di sicuro è un disco che mi piace molto in ogni sua più piccola sfaccettatura e di cui non cambierei una virgola. È un album non convenzionale, direi fuori da ogni genere preciso, di sicuro non alla moda e soprattutto penso sia molto in linea con quello che ascolto e quello che mi piace suonare. Mi rende felice sapere che questo progetto stia piacendo al pubblico, anche a quello di Bologna Violenta, abituato ad altre sonorità e “dinamiche”; penso sia un ottimo risultato, soprattutto in tempi come questi in cui spesso i contenuti sono assenti, o comunque non così importanti.
Bologna Violenta è un progetto che oggettivamente oltra a riscuotere un evidente apprezzamento, rappresenta una direzione musicale innovativa, si sente spiazzato dai riscontri positivi praticamente unanimi per questa esperienza? Ha pensato di considerare Nicola Manzan come autore di altri album musicali e narrativi come colonne sonore per altre storie?
No, non mi sento spiazzato, anzi, penso che lo sia proprio chi è abituato a sentire le cose che faccio con Bologna Violenta e che ascoltando questo disco si è trovato in mondi molto lontani da quelli che ho proposto di solito. Sono anni che faccio l’arrangiatore e il produttore di musica indie-pop e quant’altro, quindi è una materia che non mi è aliena e chi mi conosce bene sa che questo tipo di musica è una parte molto grande del mio essere musicista. Penso che questo possa essere il primo di una serie di album a mio nome, ma anche di colonne sonore o di tutto quello che non può uscire a nome Bologna Violenta. Lo vedo un po’ come l’ennesimo nuovo inizio.
C’è una cartella medica tra le 8 che l’ha colpita maggiormente di cui si è sentito ispirato in modo più forte rispetto le altre?
Per me è molto difficile sceglierne una, tutte sono molto belle e affascinanti a modo loro. Mi sento però molto legato agli ultimi due brani del disco, ovvero “Concetta G.” e “Arturo A.”. Due storie diversissime fra loro: la prima è quella di una bambina malata gravemente, con un distacco quasi totale dal mondo che la circonda e con continue crisi epilettiche che non riuscivano a curare; la seconda è quella di un ventenne che era caduto in una profonda depressione che lo portava ad essere apatico e silenzioso, direi quasi sereno a volte, anche se spesso aveva crisi di violenza in cui tendeva a distruggere tutto ciò che lo circondava.
Si sente soddisfatto delle prime esibizioni che hanno accompagnato la promozione dell’album attualmente in corso in specifiche località del territorio Reggio Emiliano e non solo?
Al momento ho presentato il disco all’Accademia di Belle Arti di Venezia e all’interno di una manifestazione a Sesto Fiorentino. Sono state entrambe molto belle e significative per me. Ora ne sto programmando altre che mi porteranno un po’ in tutto il centro-nord Italia, anche se probabilmente con l’autunno mi spingerò anche al sud.