Non poteva che amare l’isola di Torcello, combattere guerre che non gli appartenevano, sfidare la morte tra i tori di Pamplona e nei safari africani, vincere un Pulitzer e un Nobel nel volgere di dodici mesi e cercare ciò che restava della propria forza, guardando dritto nelle canne di un fucile W&C Scott & Son calibro 12 con cui, come il padre Clarence, si tolse la vita il due luglio del 1961.
Se ne andava così a sessantadue anni il nuovo Melville della letteratura americana, il più controverso scrittore della prima metà del XX secolo, che era accorso da combattente volontario e poi da cronista sul fronte italiano della Grande Guerra, nella lotta per l’indipendenza cubana e sulle sierre della Guerra Civile spagnola, guidando perfino un drappello di partigiani durante la liberazione di Parigi nel 1945.
Di ciascuno di quegli eventi gli siamo debitori noi che leggemmo “Addio alle armi” “Il vecchio e il mare” e “Per chi suona la campana”, che scoprimmo il fascino delle “praterie” africane in “Verdi colline d’Africa” e le ”Nevi del Kilimagiaro” che fummo sedotti dal fascino segreto della laguna veneta, bevendo il primo daiquiri della vita all’Harry’s Bar, sognando “Isole nella corrente”.
L’ultimo grande scrittore d’avventure ci accompagnò nella vita adulta come Melville, e Conrad, Haggart e Twain, Verne e London, Stevenson e Salgari avevano fatto durante l’adolescenza, instillandoci il dono prezioso del racconto, l’inesausto desiderio di farne parte, il desiderio segreto di diventare, un giorno anche noi, tusitala.
Icona dello scrittore moderno, Hemingway, ne incarnava i vizi e le virtù. Famoso a venticinque anni, celebrato a cinquanta dalla critica, idolatrato dal cinema con film memorabili e preda contesa dei paparazzi della “dolce vita” romana, godette di quella fama che soltanto il secondo dopoguerra e la cultura di massa potevano riservare ad uno scrittore americano, ben oltre le asperità di Truman Capote, la malinconia elitaria di Arthur Miller, la scelta di isolamento di J.D. Salinger e prima della successiva notorietà degli scrittori della beat generation e degli autori latino americani.
L’unico accostamento possibile con la letteratura italiana è con Gabriele D’Annunzio, poiché bene avremmo visto “Papa” sui cieli di Vienna a bordo un aereo di cartone per sfidare la contraerea lanciando volantini o nell’impresa di Fiume – la Weimar dell’Adriatico – a seppellire il perbenismo di un paese bacchettone, nella breve parentesi di esplosiva creatività che precedette l’ascesa del fascismo.
Chissà se il “Vate” piuttosto che farsi mummificare da vivo nello splendido isolamento del Vittoriale, avrebbe avuto il coraggio di Hemingway che volle attaccare al cuore gli stessi Stati Uniti d’America. Forse oggi lo ricorderemmo diversamente. Forse proprio per tale ragione, e per l’amicizia poi interrotta con Ezra Pound, la critica italiana non fu tenera con l’autore de “Il vecchio e il mare” che Alberto Moravia accusò di eccessivo estetismo, Claudio Gorlier di ripetitività di temi e situazioni , Giovanni Comisso di successo immeritato, al contrario di Eugenio Montale, Elio Vittorini, Italo Calvino, e Giorgio Bassani, ammiratori dell’opera.
Pur essendo stato da giovane un fiero anticomunista, Hemingway da uomo maturo e di successo si guadagnò l’odio del governo americano per i suoi contatti “comunisti” – o forse solo “libertari” – con la Cuba di Fidel Castro. Ma fece anche di più: in una famosa conferenza al Carnegie Hall – detestata dall’establishment americano non solo di destra – rievocò l’antico amore per i lealisti spagnoli, perlopiù̀ comunisti, socialisti, anarchici e liberali di sinistra. La diffidenza del governo nei suoi confronti divenne tale che la CIA raccolse su di lui un corposo fascicolo di indagini, mai del tutto archiviato.
Perché́ lo scrittore più famoso e amato degli Stati Uniti d’America si rivoltò contro il suo Paese? Con l’aperta simpatia per i movimenti comunisti, Hemingway esprimeva un confuso rancore in cui confluivano molti elementi. Almeno uno di questi era politico: pur magnificandosi come lo Stato più democratico del mondo, gli Stati Uniti avevano sfruttato i reduci della prima guerra mondiale facendone manodopera a buon mercato, cosa della quale egli, come reduce di guerra, era stato vittima e diretto testimone.
“Ma – come ha scritto lo psicologo e psicoterapeuta Nicola Ghezzani – il suo rancore era ancora più personale: mentre gli donava il successo planetario, l’ideologia americana lo invitava a persistere nel suo personaggio da macho, da duro, da ragazzone americano tutto energia ed entusiasmo alla perpetua ricerca dell’approvazione altrui, inibendogli quello spazio introverso nel quale allignavano i sentimenti e i dubbi di uno spirito tragico.
A questo dato semplicemente oggettivo dovette aggiungersi un oscuro sentimento di colpa. La consapevolezza di possedere un talento straordinario, gli fece nascere in cuore uno smisurato orgoglio e questo a sua volta una fame di successo che lo portò a tradire innumerevoli legami, legami d’amore e d’amicizia, come accadde con le mogli e con amici generosi e fidati.”
Hemingway avrebbe potuto salvarsi se avesse rinunciato ad alcune pretese del suo ideale dell’Io, pervase di un potente narcisismo. Se avesse accettato di essere lo scrittore che era già̀, o di diventare quello che era in cuor suo, non avrebbe dovuto piegarsi alla volontà dell’establishment; se avesse accettato l’amore di una o due donne e si fosse disposto a godere dei frutti di quanto aveva seminato, forse non sarebbe mai crollato nella disperazione. Al contrario, egli si imbufalì contro il sistema americano – che non perdona il tradimento della patria – e scelse donne incapaci di amarlo e che alla fine avrebbe tradito.
Infine la sua mente da artista gli fu disfatta dal sistema psichiatrico. Dal 30 novembre del ’60 fino al 22 gennaio del ’61 fu ricoverato nella clinica psichiatrica Mayo, di Rochester, nel Minnesota, dove fu sottoposto ad una batteria di venti elettroshock. La sua memoria fu intaccata e la sua abilità di scrittore distrutta. Tornato a casa, Hemingway scoprì di non riuscire a lavorare in alcun modo e comprese che la campana stava suonando per lui.
Per una curiosa coincidenza con uno degli esteti più famosi del XIX secolo, il Dottor Samuel-Jean Rossi di cui ho scritto, indossò sul pigiama la vestaglia rossa che amava chiamare da “imperatore” avvolgendo da vivo nell’estremo narcisismo le sue spoglie di lì a poco mortali.
Così lo commemorò Gabriel Garcia Marquez. “Questa volta sembra essere vero: Hemingway è morto – scrisse – la notizia ha commosso, in luoghi opposti e isolati del mondo, i camerieri da lui incontrati nei caffè, le sue guide di caccia, certi boxeur caduti in disgrazia e qualche sicario in pensione. Nel paesino di Ketchum, Idaho, la morte del buon vicino è stata appena un doloroso incidente locale. Il corpo non rimarrà esposto agli uccelli rapaci, insieme ai resti di un leopardo congelato sulla cima di una montagna, ma riposerà tranquillamente in uno di quei cimiteri troppo igienici degli Stati Uniti, circondato da cadaveri amici”.
Noi vogliamo ricordarlo con le parole del romanzo che nel 1954 gli valse il Premio Nobel per la Letteratura e al cui protagonista, il vecchio pescatore Santiago, l’attore Spencer Tracy prestò il proprio volto: “Ora, nel buio, e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spintaregolare della vela, gli parve di essere già morto, forse. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita.”