Tra poco meno di un anno Palermo avrà un nuovo sindaco. Si chiuderà un lungo ciclo storico che con una poco significativa parentesi rappresentata da Diego Cammarata, ha avuto quale protagonista indiscusso – e indiscutibile – Leoluca Orlando, con il suo portato di molteplici altre esperienze in quasi tutte le altre istituzioni repubblicane e comunitarie che saranno gli storici, e non più i cittadini, a valutare, attribuendo meriti e responsabilità.
Qui corre l’obbligo di valutare se l’elezione diretta del Primo Cittadino, soprattutto nelle grandi aree metropolitane conservi ancora il significato originario che nel 1992 inaugurava la stagione delle Autonomie Locali, a lungo pretese come applicazione del principio costituzionale della sussidiarietà, cioè della necessità che la risposta ai bisogni dei cittadini fosse mirata, pronta ed immediata, rispondendo alle molteplici e diverse esigenze e vocazioni espresse dai territori della Repubblica.
Il culmine di tale processo sarebbe stato rappresentato dalla riforma del titolo V della Costituzione varata con la Legge Cost. n.3 del 2001 di cui ricorrono vent’anni. I Comuni, le Città metropolitane, le Province e le Regioni sono enti esponenziali delle popolazioni residenti in un determinato territorio e tenuti a farsi carico dei loro bisogni. L’azione di governo si svolge a livello inferiore e quanto più vicino ai cittadini, salvo il potere di sostituzione del livello di governo immediatamente superiore in caso di impossibilità o di inadempimento del livello di governo inferiore (principio di sussidiarietà verticale). La modifica della Carta fu necessaria per dare piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma denominata ‘Federalismo a Costituzioni. invariata’ (L. 59/1997). Un compromesso al ribasso tra il Centro-sinistra di allora e la Lega di Umberto Bossi. Su piano attuativo ed organizzativo della Pubblica Amministrazione, si susseguirono le tante “Riforme Bassanini” Era il tempo di uno dei più brevi governi italiani, il Prodi I, che durò meno di mille giorni, lasciò il posto a Massimo D’Alema (398 giorni), al Governo Amato due (199 giorni) e si trascinò sino al 2001 quando perse le elezioni a vantaggio del Centro-destra che sarebbe stato al potere fino al 2006.
Durate i lunghi mesi della pandemia da Covid 19 che sembra non avere fine, di quella riforma frettolosa stiamo sperimentando limiti e contraddizioni, massimamente nei settori della salute e dell’istruzione.
In Sicilia, dopo le grandi speranze suscitate dalla legge regionale n. 7 del 26 agosto 1992, l’elezione diretta del sindaco sembra aver perso nel tempo la propria carica innovativa.
Nata per sottrarre il primo cittadino ai condizionamenti dei partiti e per garantire stabilità e governabilità, essa fu figlia di una stagione di grande partecipazione che completava il cammino iniziato con l’istituzione degli statuti comunali. Nell’aspirazione ad una stagione della politica si riconosceva così ai territori una crescente autonomia, non disgiunta da una corrispondente responsabilità.
E’ noto quanto la norma originaria abbia conosciuto in questi anni modifiche tali da ridurre sensibilmente gli scopi originari che vedevano i partiti passare in secondo piano rispetto al sindaco, non essendo questi più tenuto alla nomina di assessori politici come era sempre accaduto.
Con l’ennesima revisione legislativa che ha portato alla legge regionale n. 17 dell’11agosto 2016 si è, di fatto, tornato a subordinare l’elezione del sindaco a quella dei consiglieri, atteso che il voto espresso per quest’ultimo -con o senza la doppia preferenza di genere – si estende automaticamente (salvo il caso della volontà di avvalersi della del voto disgiunto) al candidato appoggiato dalla lista di cui il consigliere votato fa parte.
Tralasciando i molti altri elementi che sono presenti nella legge con le finalità sopra descritte e cioè quella di limitare l’autonomia dei sindaci e di conferire invece un maggior controllo al sistema dei partiti, la strategia elettorale è apparsa chiara: produrre un elevato numero di liste atte a convogliare al candidato sindaco il maggior numero di voti e ciò tenendo conto che, anche nell’ipotesi del mancato raggiungimento della soglia del 5% da parte della lista e quindi nessun consigliere eletto, questi stessi voti sarebbero assegnati comunque al candidato sindaco collegato.
Semplificando, si potrebbe tradurre così: in passato le coalizioni si realizzavano attraverso consiglieri eletti che avrebbero poi espresso il sindaco e la giunta, tenendoli sotto controllo costante con tutto ciò che ne conseguiva circa la stabilità, oggi le coalizioni – ed i relativi accordi – si costituiscono precedentemente e, in caso di eventuale ballottaggio, possono anche accrescersi rispetto al primo turno, attraverso il meccanismo dell’apparentamento ad uno dei due candidati sindaci più votati.
Appare di tutta evidenza che, seppur meno che in passato, la legge ha voluto favorire gli apparati di partito – ritenuti secondo una vulgata forse non più corrispondente alla realtà odierna- maggiormente in grado di produrre una molteplicità di liste – più o meno mimetizzate con simboli diversi – in funzione di contrasto a formazioni meno inclini ad accordi preelettorali o a frazionare in più liste il proprio elettorato.
La prossima competizione comunale vedrà così il proliferare di decine di liste, poche delle quali destinate a superare la soglia di sbarramento, ma tutte utili al proprio candidato sindaco. Ecco allora l’affollarsi di liste, “rigorosamente” civiche che metteranno insieme tutto e il proprio contrario, sperando in un effetto rastrello in grado di raggiungere il risultato al primo turno (40% e non più 50% di consensi per il sindaco) o al ballottaggio.
L’impostazione aritmetica è però datata e, per quanto la politica resti ancora una scienza esatta poiché si basa su precise quantità di consensi, sembra proprio che i partiti vivano fuori dalla realtà poiché dimenticano che oggi il mood, ossia il sentimento generale degli elettori, ha sempre minori legami di appartenenza ai partiti ed è piuttosto attratto da quelle che abbiamo imparato a conoscere come narrazioni o storytelling cioè le visioni progettuali dal disparato livello di fascinazione proposte agli elettori dai candidati sindaci, quel mix di significato e di emozioni che muove le persone e ne determina le scelte.
E’ legittimo allora porsi una domanda: in tempi di crescente repulsione verso i partiti tradizionali, cui ormai sembrano assomigliare nella pratica e nei linguaggi anche soggetti più recenti nati come movimenti alternativi se non addirittura “rivoluzionari”, quale sarà la narrazione vincente, rispetto alla quale anche un elevato numero di liste non sortirà l’effetto sperato dal legislatore regionale?
A Palermo è già possibile tracciare un quadro delle principali narrazioni che saranno in campo.
La narrazione palingenetica. Si è presentata simile a quella delle dottrine millenaristiche ed è animata dal medesimo fideismo, non scevro da qualche rogo di eretici: azzerare tutto, mandare a casa intere (sic!) formazioni politiche tradizionali ed inaugurare una nuova fase in cui la verginità del candidato, non importa se non accompagnata da competenza o esperienza, avrebbe dovuto garantire vero rinnovamento e ricreare una sorta di mitica età dell’oro; è lo statu nascenti descritto da Francesco Alberoni. Essa appare narrazione allo stato puro in quanto non accompagnata da una visione urbana articolata in specifiche progettualità e spesso non è al corrente di quanto sia stato già realizzato o in itinere. Come tutte le palingenesi essa ha attratto e continua ad attrarre soprattutto i giovani, specie quelli rimasti sempre lontani dal mondo della politica considerato sporco tout court, i delusi, gli idealisti che considerano le problematiche locali come avulse da quelle nazionali o internazionali. La parola d’ordine, bella ma insufficiente da sola, era Onestà. Sappiamo tutti come è finita a livello nazionale e come quel movimento oggi viva il dilemma tra istituzionalizzazione e fedeltà agli ideali originali.
La narrazione giovanilistica. Sembra fondarsi esclusivamente sull’età del candidato sindaco e su un impianto programmatico in cui risuonano parole come questione sociale, partecipazione dal basso, coinvolgimento dei cittadini, effetto determinante delle decisioni di una non meglio precisata “base”. In assenza di concrete proposte realmente praticabili nella realtà cittadina e metropolitana, fonda se stessa su un sentimento di rivalsa, derivante da una precedente sconfitta. La parola d’ordine che finora è più pronunciata è Basta!; ovviamente, fa riferimento ad una richiesta di ricambio generazionale che però non appare estendersi molto oltre il candidato sindaco.
La narrazione nostalgica. Ancora in embrione, sembra costruita più sul ricordo del passato (il mitico 61 a 0 in Sicilia alle politiche del 2001, l’era di Totò Cuffaro ecc..) che però trova un pesante ostacolo nella memoria ancora viva dell’era Cammarata e dei drammatici risultati finali di quel decennio. Rispecchia il frazionamento delle diverse anime a livello nazionale ed è vulnerata dall’imbarazzante compagnia con forze politiche tradizionalmente antimeridionalistiche e di contrasto al fenomeno migratorio che in Sicilia è diventato “un settore produttivo” – con luci ed ombre – a tutti gli effetti. La parola d’ordine potrebbe essere una sorta di “come eravamo”.
La narrazione della continuità progettuale. E’ quella più riconducibile agli epigoni del sindaco uscente che sembra riunire allo story telling più propriamente detto (visione, immagine internazionale, ribaltamento dei luoghi comuni sulla città, primato dell’accoglienza e dell’integrazione) con la rivendicazioni di concreti risultati raggiunti (riconoscimento UNESCO, dignità del centro storico, trasparenza amministrativa, assenza di indebitamento a breve, progressivo risanamento delle Aziende Partecipate ecc.) e di molti altri in itinere, quali la riconversione commerciale del centro in chiave turistica, la mobilità, lo stop al consumo di suolo, la rigenerazione delle periferie, le grandi opportunità recate dalla Città Metropolitana. Obiettivi ancora oggi lontani.
La forza della narrazione della continuità consiste nel convincere che Palermo non può permettersi, ancora una volta, di interrompere una progettualità che dal 1993 ad oggi ha seguito una coerenza di obiettivi e che, dopo ogni interruzione, ha dovuto impiegare tempo prezioso per riprenderne “il filo” pur riannodandolo in una trama modificata dal tempo trascorso e dai cambiamenti sociali avvenuti nel frattempo. Integrata a quella di un tempo, I have a dream, la parola d’ordine sembrerebbe proprio I got work to do.
Mentre incombe il rischio concreto della dichiarazione di dissesto economico per Palermo con le sue drammatiche conseguenze, quale sarà la narrazione vincente? Certamente lo decideranno i cittadini palermitani, ma non vi è dubbio che il risultato finale sarà assegnato – ben oltre la quantità di liste a supporto di questo o di quel candidato sindaco – a chi saprà far parlare insieme il cuore e la mente, a chi saprà essere percepito come capace di vivere la contemporaneità del mondo, pur rendendo salde le proprie radici e inalterata la propria identità, preparando la grande Palermo, capitale del Mediterraneo, ad affrontare con intransigenza le proprie contraddizioni culturali e sociali ed a vivere con serenità le grandi sfide e le non minori responsabilità che l’attendono.
Mentre viviamo queste stentate vacanze tra preoccupazioni per il presente e timori per il futuro, abbiamo il dovere di valutare il passato e di essere consapevoli che ci aspetta un anno cruciale per buona parte del quale mi piace utile e di buon auspicio ricordare ai lettori de Lo Spessore che “La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano.” Una frase attribuita erroneamente a Paolo Borsellino, in memoria del quale ho scritto commemorando la strage di via D’Amelio, ma che ricorda e ribadisce dove risiede il vero e inappellabile potere nelle grandi democrazie occidentali. Buona domenica!