Ormai anche i negazionisti più estremi, quelli che si ostinano a ripetere che i cambiamenti climatici (e i danni per il pianeta che ne derivano) non era legati all’utilizzo dei combustibili fossili, hanno dovuto cedere all’ovvietà. Tra emissioni dannose per l’ambiente e salute di tutti, versamenti di petrolio in mare (così frequenti da non fare più notizia) e politiche “verdi” (più o meno reali), anche per le grandi compagnie petrolifere è sempre più difficile ritagliarsi uno spazio credibile sul piano della comunicazione.
Per questo, le Big Oil, le grandi compagnie petrolifere, hanno deciso di adottare una strategia diversa: presentarsi al pubblico in modo diverso. ExxonMobil sottolinea il proprio impegno a “ridurre le emissioni di carbonio con soluzioni energetiche innovative”. Chevron ha invitato i cittadini ad accendere le luci per illuminare questo periodo buio. BP si è vantata delle proprie “innovazioni digitali” sulla nuova, enorme piattaforma di trivellazione petrolifera nel Golfo del Messico (dimenticando i danni causati dalle trivellazioni nel profondo degli oceani). Shell si è scoperta improvvisamente socialmente impegnata e si è vantata di sostenere le donne nei lavori tradizionalmente dominati dagli uomini. Anche Eni non fa che sventolare spot dove dice che è meglio e più “verde” grazie ai consumatori.
Sembrerebbe che le aziende produttrici dei prodotti responsabili dei maggiori danni all’ambiente fossero diventate tutte fautrici dei diritti sociali, della lotta alla povertà e molto altro ancora. Ma gli esperti di marketing non ci sono cascati e hanno analizzato le nuove, sottili strategie delle compagnie petrolifere.
Robert Brulle, sociologo ambientale e professore alla Brown University, ha detto: “Se ti concentri solo sulla negazione del clima, allora tutte queste altre cose vengono perse”. Per dimostrare che è davvero così, è bastato analizzare la spesa pubblicitaria delle principali società petrolifere negli ultimi 30 anni. Buona parte delle somme sono state utilizzate per campagne che ricordano alle persone le grandi cose che fanno le compagnie petrolifere, che la popolazione mondiale non può fare a meno dei combustibili fossili e che l’industria petrolifera è importante per la società. “Spendono probabilmente cinque o dieci volte di più in tutta questa pubblicità promozionale aziendale”, ha detto Brulle.
Da almeno un decennio, le Big Oil non cercano più di negare i danni prodotti dai combustibili fossili all’ambiente. Hanno capito che è meglio concentrarsi su messaggi che ne minimizzano la gravità e l’urgenza di soluzioni. Una strategia che i ricercatori definiscono “woke washing”.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Global Sustainability, William Lamb e altri ricercatori hanno catalogato questi messaggi. Secondo il team di Lamb, i “discorsi di ritardo” (delle conseguenze dell’uso di combustibili fossili) possono esser suddivisi in quattro categorie: reindirizzare la responsabilità (i consumatori sono anche loro responsabili delle emissioni di combustibili fossili), promuovere soluzioni non trasformative (il cambiamento dirompente non è necessario), enfatizzare il lato negativo dell’azione (il cambiamento avrà conseguenze pesanti) e arrendersi (è impossibile fare qualcosa per limitare i cambiamenti climatici). Il tema più utilizzato sarebbe quello della “della giustizia sociale”: una transizione verso la messa al bando dei combustibili fossili avrebbe un impatto negativo sui paesi poveri e meno sviluppati.
L’altro punto su cui si sono concentrate le aziende del petrolio è che abbandonare i combustibili fossili avrà effetti pesanti sulle comunità povere che non sarebbero in grado di beneficiare di servizi necessari a prezzi accessibili. “L’argomento della giustizia sociale è quello che stiamo vedendo usato di più”, dice Lamb riferendosi anche a quanto avviene in Europa (difficile dargli torto pensando al New Green Deal della Von der Leyen). La realtà, però, è che delle fasce di popolazione meno abbienti, alle Big Oil, importa poco e che continuare a utilizzare combustibili fossili nei paesi poveri serve alle multinazionali per produrre a basso costo i beni che vendono nei paesi più sviluppati. Secondo Lamb verrebbero utilizzati anche altri strumenti di marketing, dal concentrarsi su ciò che i singoli consumatori dovrebbero fare per ridurre le proprie impronte di carbonio alla promozione delle idee che la tecnologia ci salverà.
“Abbiamo esaminato migliaia di testimonianze sulle conseguenze dei cambiamenti climatici e sull’energia pulita a livello statale e tutti gli argomenti dell’industria contro questo tipo di legislazione includevano questi messaggi”, ha dichiarato J. Timmons Roberts, professore di ambiente e sociologia alla Brown University e co-autore del documento “Discorsi di ritardo”. “Questi strumenti sono efficaci, funzionano”, afferma Roberts. “Le persone hanno bisogno di una sorta di guida sul campo per questi argomenti in modo che non vengano semplicemente ingannati”.
Forse è giunto il momento che le persone comincino a capire farsi influenzare da certe campagne pubblicitarie non permetterà di liberarsi della dipendenza da chi, in barba a tutte le campagne ambientaliste, a tutti gli spot, a tutti i proclami verdi dei politici di turno, a tutti i discorsi dell’ambientalista in erba di turno, continua a comandare il mondo.