“L’uomo appare come un funambolo
in equilibrio tra un passato alle spalle
e un futuro non percettibile
e non nettamente configurabile”
Giambattista Vico
(1668-1774)
Sarà capitato anche a voi di intercettare durante una pausa pubblicitaria qualche sequenza della trasmissione Master Chef che, similmente ad altre dello stesso genere, allinea tremanti allievi cuochi davanti a dispotici chef stellati che con piglio magistrale impongono loro le proprie lezioni di cucina, senza timore di umiliarli o in alcuni casi di indurli addirittura al pianto, quando ne giudicano negativamente le performance.
Accade non soltanto tra i fumi ed i sapori di improbabili cucine con sede in luoghi ameni, ma anche nel mondo dello sport dove nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il verdetto del giudice di gara o ancora in rutilanti programmi dove principianti o meno di questa o di quella arte si sottomettono senza proferire verbo alle decisioni delle variopinte giurie.
Si tratta di migliaia di persone – nel calcio di diversi milioni – che, al di là di pochi esaltati, rispettano le regole del gioco e il ruolo di chi è chiamato a guidarlo nell’interesse di tutti i contendenti.
Perché nell’italietta di tutti i giorni non accade qualcosa di simile e, dalla contestazione di una multa sacrosanta all’attacco alle Forse dell’Ordine – mai state tanto tolleranti e prudenti come oggi – alla disobbedienza alle più elementari regole di convivenza civile, per culminare nella ribellione di piazza, parte non piccola di quegli italiani assume un atteggiamento aggressivo e sprezzante di decisioni assunte da poteri legittimamente costituiti ?
Cosa succede nell’animo di pacifici padri e madri di famiglia che anziché insorgere davanti a certe trasmissioni “autoritarie” punendole negando gli ascolti, di cui le medesime vivono in forza degli inserti pubblicitari, ne attendono con ansia i vari appuntamenti e ne discutono gli eventi non sempre commendevoli che vi accadono ?
Cosa spinge un popolo che sembra aver dimenticato cosa sia uno stato autoritario – forse perché a scuola o in famiglia nessuno gli ne ha mai parlato – a non riconoscersi nelle maggioranze democraticamente elette, considerando invece il proprio dissenso la giustificazione per non rispettare le regole ?
Quali sentimenti albergano nel cuore di chi ostruisce con la propria vettura un posto riservato ai disabili, salta una qualsiasi fila con le scuse più risibili, quando non con arroganza e prepotenza, lorda un monumento o uno spazio pubblico (che talvolta in quanto tale è considerato non di tutti ma di nessuno) oppure considera il merito e la competenza come nemici da abbattere perché non disturbino il mondo delle raccomandazione e delle dinastie, universitarie, ospedaliere o dello spettacolo per giungere a quelle aziendali, vie tanto più comode e rapide nel raggiungere i propri obiettivi di casta o personali ?
C’è qualcosa di sbagliato nella dinamica della convivenza democratica oppure si tratta di un fenomeno, ormai pluri generazionale, destinato a trasformare la società in una giungla dove sembrano prevalere coloro che gridano più forte mente i più colti, i più qualificati, i più meritevoli sono costretti dalla propria educazione a subire in silenzio gli effetti devastanti della cosiddette minoranze rumorose ?
Lo stato liberale e la giovanissima società italiana ancora in formazione per lingua e cultura comune, si trovò cento anni fa nella medesima condizione presentandosi inerme nello scontro con minoranze scalcinate che – come nella vicina Germania dieci anni dopo – presero il potere nell’indifferenza generale.
Non mi lascerò far riprendere da colleghi che saranno pronti ad eccepire che si trattò allora di contesti storico/culturali molto diversi, dicendo subito che non è così e, conseguentemente ne argomenterò, mi auguro con credibile competenza.
Oggi come allora l’Europa era ad bivio drammatico. Dopo la faticosa affermazione dello stato di diritto che attraverso i risorgimenti nazionali aveva finalmente confinato l’autorità regia nei recinti costituzionali o se ne era liberata in altro modo, due venti impetuosi sconvolsero il mondo precipitandolo nel caos: la prima guerra mondiale che vide contrapporsi gli ultimi imperi e la Rivoluzione di Ottobre che per la prima volta realizzava sul piano reale il pensiero marxiano, pur travisandolo come spesso accade laddove la ricerca del potere travalica le finalità delle idee di progresso.
Gli effetti di quegli eventi precipitarono il vecchio continente nel panico più assoluto: un mondo era tramontato e quello nuovo tardava a sorgere, lasciando ampi spazi a pulsioni irrazionali e populistiche che trovarono terreno fertile in società ancora in transizione dalla dimensione rurale a quella urbana, analfabeta in larga misura e la cui anima era contesa tra la borghesia operosa e il delirio comunista che annunciava il paradiso in terra in cui “uno sarebbe valso uno” non tanto in merito a diritto e doveri com’è giusto che sia, ma, terribilmente, anche nelle aspirazioni personali e imprenditive.
Il Fascismo scelse subito da che parte stare e, abbandonato lo spirito vagamente socialista di San Sepolcro, passò armi e bagagli dalla parte degli agrari e degli industriali assicurando loro protezione e garanzia soprattutto nel corso del “biennio rosso” tra il 1919 e 1920 in cui furono consumati crimini di ogni genere seppur giustificati da antiche vessazioni e vere e proprie schiavitù che vedevano nella Russia una prospettiva di riscatto.
Il debole stato liberale – non a caso ancora incarnato da anziani gentiluomini “vecchio stampo” dal passato risorgimentale e da una dinastia dal DNA malaticcio ed inadeguato – considerato, dai pochi che conoscevano il significato di questa espressione, reo di aver portato a casa una vittoria mutilata a fronte di milioni di mutilati in carne ed ossa, cominciò a vacillare, perdendo ogni autorità morale e politica in un paese in ginocchio dove le classi più abbienti temevano per i propri averi e le masse, vera e propria carne da cannone durante il conflitto, per la propria sopravvivenza quotidiana.
Una sterminata letteratura narra di quegli anni “di transizione” e nel cinema la più completa ricostruzione si deve al capolavoro di Bernardo Bertolucci “Novecento” del 1976 che in alcune ore potrebbe insegnare a molti studenti il “secolo breve” molto più di poche e stentate lezioni di storia propinate, non sempre con adeguata competenza, già sul finire dell’anno scolastico, sullo sfondo degli imminenti esami di maturità dove tutto si esaminerà ad eccezione dei recenti cinquant’anni di storia e società italiana.
Gli eventi che, come allora, stanno creando un nuovo mondo più conflittuale, polarizzando i sentimenti sociali possono essere individuati nella nuova contrapposizione tra nord e sud del mondo, nell’eccessivo squilibrio economico ora aggravato dagli effetti della pandemia, nella crescita di una sterminata periferia globale nelle città europee dove difficilmente giungono le ragioni del vivere civile e prevalgono bisogni a cui nessuno dà risposta ad eccezione di chi propone soluzioni semplificate a problemi complessi. Un mix esplosivo il cui lievito è l’analfabetismo funzionale e l’influenza pestilenziale dei social network quali principali cause di disorientamento e di paure ancestrali che evocano la bestia affamata e in cerca di riparo che è in ciascuno di noi, pronta a prendere il sopravvento quando ne ricorrono le circostanze,
Ma torniamo ai nostri giorni e alla puntuale ripetizione del clima di quegli anni lontani, anche in considerazione della necessità di ricordare che la travisata interpretazione dei corsi e ricorsi della storia che, rileggendo Giambattista Vico, ha più a che fare con la natura umana che con gli eventi specifici, che si manifestano come mai uguali ai precedenti. Di una cospicua e innovativa lettura dell’autore de La Scienza Nuova siamo debitori a Maria Donzelli che nel libro “L’età dei barbari. Giambattista Vico e il nostro tempo” edito da Donzelli, Roma, nel 2019. Scritto con un linguaggio semplice, si rivela un testo accessibile tanto ai lettori che ignorano Vico, quanto ai lettori più colti che lo conoscono per lo più imbalsamato nel cliché dei “corsi e ricorsi” storici.
“In Occidente, e non solo, si assiste alla degenerazione delle forme democratiche: la politica sembra aver abdicato a ogni visione del mondo e si riduce progressivamente a una mera gestione – qualche volta appropriazione – dell’esistente”. Reagire a ciò, per l’autrice, significa recuperare non solo il senso negativo ma anche il senso positivo della barbarie vichiana: se, infatti, la barbarie rappresenta un crollo, è anche vero che essa può rappresentare un’opportunità qualora si recuperi l’ingenium, “questa facoltà straordinaria, che la razionalità “tutta dispiegata” può mortificare e perdere, determinando la disperazione di tale assenza visibile nella compulsiva quantificazione del facere a discapito della sua qualità”.
Alla quantità e all’accumulo del fare, la Donzelli invita al recupero della sua qualità da rintracciare, vichianamente, nell’equilibrio continuo tra logos e phronesis, tra razionalità e saggezza. Recuperare l’unitarietà dell’uomo mettendo nuovamente in funzione il suo spirito creativo: questo deve essere lo stimolo da cogliere, per l’autrice, dalla barbarie della riflessione dei nostri tempi.
E se, ormai dimenticati gli anni della giovane Repubblica e confinati nella vergogna quelli più recenti, fosse una democrazia senza emozioni a lasciare lo spazio al potere delle emozioni, attraendo molti giovani e meno giovani che, pur insieme a tanti altri che le indirizzano al volontariato e alla solidarietà, credono di trovarle in militanze che la storia ha sepolto, in talune tifoserie che ne hanno alimentato il ricordo attraverso gesti, linguaggi e slogan o in antiche religioni dell’assoluto dove all’uomo è comandato di temere l’ira della divinità?
E’ l’ interrogativo finale a cui probabilmente i giorni a venire daranno una risposta. Intanto, se proprio non avete nulla di meglio da fare e in attesa del “successo” delle prossime, guardate le passate puntate di Master Chef, sperando che, ameno lì, non venga fuori un brutto pasticcio.