Ogni anno, in occasione delle Conferenze delle Parti (l’ultima, la COP26 si è tenuta a Glasgow, lo scorso novembre), si fa un gran parlare di emissioni di CO2 e dell’impatto sull’ambiente che ha la produzione di beni e servizi, l’agricoltura o il settore civile. Stranamente, però, nessuno parla delle conseguenze sull’ambiente derivanti dal settore militare.
Eppure i suoi effetti devastanti sono noti da decenni. In un rapporto del 2002 si parlava di “attività militari [che] mettono a dura prova l’ambiente”. I ricercatori si dicevano sorpresi del fatto che “il loro contributo [in senso negativo, n.d.r.] al degrado ambientale complessivo non aveva ricevuto la sua quota di attenzione”. In quella occasione, venne analizzato a fondo lo “stress” causato dalle attività militari (in pace e in guerra) sull’ambiente: inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua in tempo di pace; gli effetti immediati e a lungo termine dei conflitti armati; militarizzazione dello spazio esterno; sviluppo e produzione di armi nucleari; e uso del suolo. Erano anche gli anni della lotta per chiudere il buco dell’ozono. Ebbene, secondo i ricercatori, oltre due terzi del CFC-113 (principale causa del buco nell’ozono) derivavano proprio dal settore militare. Ma l’impatto sull’ambiente non finiva lì: almeno una cinquantina di testate nucleari e 11 reattori nucleari giacevano sul fondo degli oceani. Secondo i ricercatori le forze armate statunitensi producevano cinque volte più tossine delle cinque le principali società chimiche statunitensi messe insieme.
Nessuno fece niente. L’appello degli studiosi rimase inascoltato.
Oggi, questa situazione potrebbe essere peggiorata. L’esercito americano (e quelli degli altri paesi lo seguono e ruota) è uno dei maggiori inquinatori del pianeta. Consuma più combustibili liquidi ed emette più gas influenti sul clima rispetto alla maggior parte dei paesi di medie dimensioni. Secondo un nuovo studio, se l’esercito a stelle e strisce fosse un paese si posizionerebbe al 47esimo posto mondiale per emissioni di gas serra, tra Perù e Portogallo. Nel 2017, l’esercito americano avrebbe consumato circa 269.230 barili di petrolio al giorno. La US Air Force avrebbe comprato carburante per 4,9 miliardi di dollari. L’esercito solo (si fa per dire) 947 milioni di dollari (dei quali ben 36 milioni di dollari solo per i marines). Il condizionale è d’obbligo: è difficile ottenere dati ufficiali su questo argomento dal Pentagono e da tutti i dipartimenti governativi degli Stati Uniti. Bruciando quei combustibili le forze armate americane avrebbero emesso più di 25milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Forse è per questo che molti paesi hanno fatto di tutto per non considerare le emissioni militari quando è trattato delle politiche da adottare per contrastare i cambiamenti climatici. Già dal lontano 1997, in occasione della stipula del Protocollo di Kyoto (pietra miliare degli accordi internazionali sulle emissioni di CO2). In quell’occasione, gli USA fecero di tutto per non inserire nel calcolo delle emissioni quelle militari. Per porvi rimedio si dovette attendere la COP 21 e l’accordo di Parigi. Ma l’anno dopo, nel 2020, le politiche della nuova presidenza americana (Trump) videro un nuovo passo indietro. E di questi numeri non si parlò più.
In tutto il mondo, nessun esercito è immune dalle conseguenze che produce sul cambiamento climatico: anzi, in molti casi, agisce come “moltiplicatore delle minacce”. É vero che, in alcuni casi i militari hanno promesso di voler limitare l’impatto sull’ambiente ricorrendo a fonti energetiche alternative (come i biocarburanti). Ma se si guarda ai numeri complessivi, queste misure sono dei palliativi: sono solo una piccola frazione della quantità di combustibile utilizzato ogni anno dalle forze armate. Basti pensare che, nonostante i tentativi di rendere più “verdi” le sue operazioni aumentando la produzione di elettricità rinnovabile su basi, solo pochi anni fa era ancora il singolo più grande consumatore istituzionale di idrocarburi al mondo. E, di conseguenza, uno dei principali emettitori di gas serra al mondo. Nel 2020, in occasione delle elezioni presidenziali USA, il peso dell’esercito sull’ambiente è diventato oggetto di dibattito politico. Alcuni candidati democratici, come la senatrice Elizabeth Warren, e membri del Congresso come Alexandria Ocasio-Cortez hanno proposto iniziative sul clima come il Green New Deal. Ma queste azioni, per essere davvero efficaci, avrebbero dovuto comprendere la chiusura di vaste sezioni della macchina militare. Riduzioni significative del bilancio del Pentagono e sulla sua capacità di fare la guerra.
E questo non solo negli USA: in tutto il pianeta. Anche nel New Green Deal 2019-2024 – strano che il nome sia lo stesso -, quello della Commissione Europea, quello voluto a tutti i costi dalla Von der Leyern. Quello presentato a pandemia iniziata accogliendo calorosamente la piccola Greta Thumberg al Parlamento europeo. Ebbene nel New Green Deal targato Ue di impatto sull’ambiente degli eserciti non si parla da nessuna parte. Eppure secondo un recente studio, le emissioni annuali di gas a effetto serra derivanti dagli eserciti europei è tutt’altro che trascurabile: le stime parlano di quasi 25 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente di 14 milioni di automobili! Eppure, nella nuova politica europea “verde”, di questa causa di inquinamento non si parla mai. Anzi, sembra che i parlamentari non sappiano proprio nulla: è la conclusione al quale è arrivato un recente (febbraio 2021) studio commissionato da una coalizione di partiti di sinistra del Parlamento europeo, The Left.
Molti dati militari sono stati dichiarati riservati. E ai parlamentari europei non è rimasto che fare delle stime, delle congetture sulle emissioni. Come quella del think tank indipendente Scientists for Global Responsibility (SGR), “una stima prudente” delle emissioni basata sui dati della NATO, dell’UE e dell’istituto di ricerca svedese Sipri. Secondo quanto riportato nel rapporto “Under the Radar: The Carbon Footprint of Europe’s Military Sectors”, “attualmente non esiste una rendicontazione pubblica consolidata delle emissioni di gas serra per le forze armate nazionali dell’Unione europea”. Ma soprattutto non sarebbe mai stato fissato “nessun obiettivo di riduzione generale che incorpori le emissioni dei militari”.
Nel suo libro “Military Waste: The Unexpected Consequences of Permanent War Readiness”, Joshua O. Reno, professore associato di antropologia alla Binghamton University di New York, ha detto che lo spreco di risorse causato dal settore militare degli Stati Uniti avrebbe conseguenze enormi sui civili e sull’ambiente. Reno ha fatto delle stime sulle conseguenze dell’essere “costantemente pronti per la guerra” per gli americani. Attraverso ricerche etnografiche e archivistiche, il ricercatore ha evidenziato che esistono diversi tipi di problemi. Ad esempio, l’impatto che ha la cosiddetta “spazzatura militare” sulle popolazioni non coinvolte direttamente in una guerra. “Ci sono migliaia di siti di difesa precedentemente utilizzati che lasciano eredità tossiche dietro di sé quando abbandonati”, ha detto Reno. “Se non è più utile e marcisce vicino a dove vivi, potrebbe diffondere l’inquinamento anche dopo che è stato inviato da qualche altra parte”. “Quando la vera spazzatura cade nelle mani delle persone, o cade dal cielo, potremmo trasformarla in arte, rottamarla, venderla o affondarla. Quindi può essere un’opportunità per alcune persone”. “Indipendentemente da ciò”, però, “ci costringe a fare i conti con le conseguenze di decenni di accumulo militare”.
Conti e responsabilità dei quali gli USA (come molti dei paesi guerrafondai del pianeta) sembrano non volere farsi carico. Come ha scoperto Reno, i rifiuti militari sono molto più che spazzatura “casuale”: comprendono vere e proprie isole altamente inquinanti sui siti una volta occupati da basi militari. Sulla terra, in mare e anche nello spazio. “L’ambiente orbitale intorno alla Terra è pieno di piccoli pezzi di satelliti che vanno veloci come proiettili” ha detto Reno. “Entrambe le coste [quella atlantica e quella sul pacifico, n.d.r.] sono piene di navi militari deliberatamente affondate che perdono indicibili inquinanti nell’oceano” senza rispettare i regolamenti dell’EPA. “Spero anche che riconosciamo ciò che abbiamo fatto al mondo, rendendolo più tossico e meno sicuro con tutta la nostra spazzatura militare, e che ci assumiamo parte della responsabilità non pensando alle conseguenze del mondo che abbiamo fatto”, è stato l’invito di Reno.
Un invito che nessun esercito e nessun governo, però, sembra voler cogliere.